Donne senza quote senza frontiere
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Il Regno Unito dell’uninominale si tinge di rosa, senza buonismi. ““In politica se vuoi sentir dire qualcosa chiedi a un uomo, se vuoi veder fare qualcosa chiedi a una donna”.
Theresa May e Andrea Leadsom (foto LaPresse)
di Redazione | 09 Luglio 2016 ore 06:18 Foglio
Per la Gran Bretagna il dopo Brexit sarà una questione di donne: Theresa May e Andrea Leadsom si contendono la leadership dei conservatori; Nicola Sturgeon, primo ministro scozzese, capo dello Scottish National Party e donna, potrebbe indire un nuovo referendum per restare nell’Unione europea; Angela Eagle intende sfidare Jeremy Corbyn, il peggior segretario laburista da decenni (come forse avrebbe fatto Jo Cox, uccisa il 16 giugno). Ancora una donna, Arlene Foster, primo ministro dell’Irlanda del nord, si batterà invece per restare con Londra, dietro contropartite.
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Diceva la premier Margaret Thatcher: “In politica se vuoi sentir dire qualcosa chiedi a un uomo, se vuoi veder fare qualcosa chiedi a una donna”. Eppure a Westminster, come pure nei parlamenti di Belfast e Edimburgo, non esistono quote rosa obbligatorie come le vorrebbe Laura Boldrini, e come è per legge nelle liste delle amministrative e nelle giunte comunali. Né ci sono nella Germania di Angela Merkel, e neppure in Svezia, Finlandia, Norvegia e Danimarca, i paesi europei con il record di donne in Parlamento. Se a Londra le donne dovranno rimediare agli errori dei maschi che hanno scambiato la Brexit per le bravate tra confraternite di Eton o le bicchierate ai pub, si deve alla selezione operata sul campo dal sistema uninominale maggioritario, che lega gli eletti ai loro collegi: il surgery, l’incontro settimanale con gli elettori, è un obbligo, così come la presenza alle sedute parlamentari imposta dai capigruppo. Fra le modifiche di cui si discute per l’Italicum, queste sarebbero certo più utili delle liste con il bilancino, rosa o meno che sia.
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