Col petrolio a 30 dollari a rischio la pace sociale nei paesi arabi
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Dall’Algeria che riduce i sussidi ai sauditi che inaugurano l’austerità. La mappa delle conseguenze del crollo dei prezzi
22/06/2016 ROLLA SCOLARI La Stampa
Quando nel 1977 Anwar al-Sadat eliminò i sussidi alimentari, l’Egitto intero scese in strada. In due giorni di scontri furono uccise 79 persone. I sussidi furono ripristinati e durano ancora oggi. Lo sanno bene gli autocrati del mondo arabo: toccare le generose sovvenzioni che molti regimi ancora garantiscono alla popolazione, in cambio di un’artificiale pace sociale, mette a rischio fragili equilibri. In questi ultimi due anni, in cui il prezzo del greggio è crollato del 75 per cento, fino a scendere sotto i 30 dollari al barile, sono diversi i governi arabi produttori di petrolio che sentono crescere la pressione, obbligati a varare inedite misure di austerità, confrontati al crescere del dissenso popolare e all’irrobustirsi della minaccia dell’estremismo religioso.
Algeria, pensioni anticipate a rischio
Le rendite petrolifere - che rappresentano il 40 per cento del budget statale - sono calate in Algeria del 70 per cento in due anni. Con il crollo del prezzo del barile il governo fatica a pagare gli ingenti sussidi che per anni hanno letteralmente comperato la pace sociale. A dicembre, la Banca centrale ha annunciato che le riserve nazionali si sono abbassate di 32 miliardi di dollari tra settembre 2014 e luglio 2015. Con un tasso di disoccupazione all’11 per cento e un’inflazione in aumento, il governo ha tagliato i sussidi su carburante, elettricità, ha imposto una tassa sul tabacco e l’Iva, ha annunciato la cancellazione delle pensioni anticipate. Accade mentre la questione sulla successione all’anziano rais malato, Abdelaziz Bouteflika, è aperta, e l’instabilità libica preme sul confine.
Libia: in coda davanti alle banche
La Libia assieme all’Iraq è stata inserita dalla banca di investimenti RBC Capital Markets tra i “Fragile Five”, i cinque Paesi più a rischio di instabilità politica a causa del crollo del greggio. La produzione libica è stremata da anni di conflitto interno: il Paese produce meno di 400mila barili da 1,6 milioni prima della rivoluzione. La Banca centrale, le cui riserve secondo l’International Crisis Group erano già a dicembre di appena 60 miliardi di dollari, continua a pagare 18 milioni di sussidi l’anno. E il Paese è in preda a una importante crisi di liquidità che si materializza ogni giorno con code di cittadini arrabbiati alle banche, in attesa di ritirare un minimo giornaliero a persona. L’economia dei sussidi, ormai non sostenibile, ha rafforzato il mercato nero. Un litro di diesel costa dieci cents. Il surplus è venduto oltre i confini ad almeno 50 cents. Gruppi estremisti come lo Stato Islamico – oggi sotto attacco delle milizie leali al governo di Fayez al-Sarraj nella sua roccaforte di Sirte – hanno approfittato di questo stato di instabilità economica e politica per espandersi.
Egitto, un miliardo e mezzo di sussidi sfumati
In un Paese importatore in cui il consumo energetico sale del 3 per cento l’anno, il crollo del prezzo del barile aiuta una nazione ancorata al sistema di sussidi a diminuirli. Per l’anno fiscale 2015-2016, il Cairo ha stanziato 8 miliardi di dollari in sussidi energetici contro i 9,5 dell’anno prima, andando incontro a un piano statale che prevede di risanare l’enorme deficit di bilancio con un taglio del 30 per cento delle sovvenzioni nei prossimi cinque anni. L’Egitto è però un importante Paese esportatore di greggio, e prezzi più alti potrebbero aiutare dall’altra parte un’economia già provata da anni di instabilità politica. La Banca centrale ha alzato due volte in pochi mesi i tassi di interesse per contenere un’inflazione che a maggio è schizzata al livello massimo in sette anni, raggiungendo il 12,75 per cento. Preoccupa inoltre l’impatto del crollo del prezzo del barile sugli alleati e generosi finanziatori arabi del Golfo, che tra il 2013 e il 2014 hanno versato oltre 10,6 miliardi di dollari al Cairo.
L’Arabia Saudita inaugura l’austerità
Il crollo del prezzo del greggio ha obbligato l’Arabia Saudita a varare nei mesi scorsi misure di austerità sconosciute a una popolazione da sempre abituata a ricchi benefici legati alle rendite petrolifere. La monarchia ha annunciato un piano di tagli per arginare un inedito deficit di bilancio pari al 15 per cento del Pil. La monarchia dipende per il 90 per cento dalle rendite del petrolio. Statistiche pubblicate da un’agenzia saudita hanno da poco rivelato che le esportazioni di greggio sono scese a 7,4 milioni di barili al giorno ad aprile, il dato più basso da ottobre, mentre la produzione - che Riad si rifiuta di abbassare nonostante le richieste di altri Paesi produttori - è all’alto livello di 10,26 milioni. Ad aprile, il figlio del re, Mohammed bin Salman, ha annunciato un piano, Vision 2030, che prevede di rendere l’economia nazionale meno dipendente dai proventi del petrolio nei prossimi 15 anni, soprattutto grazie a un Fondo sovrano di investimenti che avrebbe come modello quello degli Emirati arabi, Paese che ha già portato a termine passi per emanciparsi dalla dipendenza da greggio.
Iraq, tagli alla sanità gratuita
In Iraq, la crisi del prezzo del petrolio arriva nel mezzo di una costosa guerra contro lo Stato Islamico. Proteste e manifestazioni sono iniziate nell’estate contro il governo. La popolazione di 3,4 milioni di abitanti - di cui il 23 per cento vive con 2,2 dollari al giorno - chiede riforme economiche. L’Iraq trae il 90 per cento delle sue rendite dall’industria petrolifera. In realtà, a maggio 2016 ha esportato 3,3 milioni di barili al giorno dalle zone meridionali: una quantità record mai raggiunta dopo gli anni delle sanzioni e delle guerre. Se il Sud produce, però, molte aree petrolifere del Nord sono teatro delle battaglie contro lo Stato Islamico. I combattimenti non permettono al governo di esportare il petrolio utilizzando un oleodotto che a Nord va verso la Turchia, e dispute interne tra Bagdad e i curdi hanno bloccato possibili esportazioni. Nonostante le esportazioni, i prezzi bassi non aiutano a rafforzare un’economia gravata da un tasso di disoccupazione oltre l’11 per cento, e da una guerra che ha creato migliaia di sfollati interni. Per arginare le spese, il governo ha tagliato sulla sanità pubblica gratuita, un lascito dell’era Baathista.
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