Appunti e critiche per correggere la riforma del credito cooperativo

L’autoriforma del credito cooperativo viene consolidata nel decreto sulle banche. Se ne avvertiva l’urgenza per affrontare il deterioramento dei crediti concessi a sostegno dei territori. Ma serve uno sforzo ulteriore

di Massimo Mucchetti | 21 Febbraio 2016 ore 06:02

Al direttore - Habemus decretum! Bene. L’autoriforma del credito cooperativo viene consolidata nel decreto sulle banche. Se ne avvertiva l’urgenza per affrontare, con le risorse del settore e senza oneri per lo stato, il deterioramento dei crediti concessi a sostegno dei territori. E anche per migliorare la governance, talvolta carente, di queste banche, piccole e preziose. Un plauso al governo, dunque. Ma con una marcata riserva sulla deroga che concede alle banche di credito cooperativo con un patrimonio netto superiore ai 200 milioni la possibilità di trasformarsi in società per azioni versando il 20 per cento della riserva indivisibile all’erario. Cinque buone ragioni ne consigliano la correzione in sede di conversione del decreto in legge.

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La prima ragione riguarda la concorrenza. A fine 2014, le Bcc potenzialmente destinate all’opting out erano 14, con un patrimonio netto aggregato di 4 miliardi costituito al 90 per cento dalla riserva indivisibile. Nessuno contesta in linea di principio la possibilità che una Bcc possa chiamarsi fuori dal progetto comune e trasformarsi in S.p.A. Ma, sempre in linea di principio, a patto che versi ai fondi mutualistici la riserva indivisibile, accumulata negli anni in esenzione d’imposta. Il favor fiscale si giustifica con l’esigenza di capitalizzare l’impresa cooperativa, la cui natura giuridica rende difficile l’accesso ai mercati finanziari. E non con l’obiettivo di assegnare un premio ai soci dell’ultima ora. La cooperazione si regge nel tempo su un doppio sacrificio: lo stato rinuncia a una parte delle imposte; i soci alla rivalutazione delle quote rappresentata dall’accumulazione degli utili non distribuiti. Non a caso le quote delle cooperative si scambiano al valore nominale. Se così non fosse, se cioè la riserva accumulata in esenzione fiscale diventasse divisibile, i concorrenti in forma di S.p.A avrebbero buon gioco a considerarla un aiuto di stato e a chiedere alla Commissione europea la restituzione delle imposte evitate all’erario. Ma quali effetti avrebbe sulle Bcc una tale restituzione?

L’entità della riserva indivisibile varia da cooperativa a cooperativa. Nelle 14 Bcc maggiori, al 31 dicembre 2014, pesava più o meno per 3,6 miliardi. Se fissiamo l’imposta evitata a una media storica del 30 per cento, stiamo parlando di 1,1 miliardi. Ma se l’imposta evitata venisse restituita essa dovrebbe essere assimilata a un prestito sul quale andrebbero conteggiati gli interessi passivi. Altro che 20 per cento! Se fosse restituita l’imposta evitata, a nessuna Bcc resterebbe il capitale necessario per l’attività bancaria.

La seconda critica è di carattere etico. So bene che l’etica va richiamata con parsimonia. Ma come non farlo adesso? Con questa norma i soci delle 14 Bcc, avendo investito il 10 per cento del patrimonio, e cioè 400 milioni, acquisirebbero risorse per 2,9 miliardi (la riserva indivisibile di 3,6 miliardi meno il prelievo del 20 per cento ossia meno 720 milioni). E le acquisirebbero senza sborsare un euro. L’imposta sostituiva del  20 per cento verrebbe infatti versata dalle Bcc e non dai loro soci.

 La terza critica è giuridica. La norma accoglie una variante suggerita da Nicola Rossi, consulente di alcune Bcc toscane, secondo il quale la Bcc resta cooperativa ma può scorporare l’azienda bancaria in una S.p.A che capitalizza con il proprio patrimonio. La riserva indivisibile resterebbe nella Bcc, e tuttavia sarebbe investita non più nell’attività aziendale mutualistica che la giustificava, ma nella partecipazione in una banca che sarà, a questo punto, a fini di lucro. Una simile soluzione era stata considerata non conforme alla Costituzione quando era stata prospettata per le popolari, che non hanno favor fiscali. A maggior ragione la censura dovrebbe scattare per le Bcc. Vedremo che cosa deciderà la Suprema corte di fronte ai prevedibili ricorsi. In ogni caso, questo schema non può trovare conforto nell’esperienza di Unipol, per quanto sia stata citata da Matteo Renzi e Rossi. Le grandi cooperative di consumo e alcune coop di lavoro, infatti, hanno investito nelle assicurazioni le risorse che consideravano in eccesso (alcune sbagliando), ma nessuna ha scorporato i supermercati o le fabbriche in tante S.p.A riducendosi a mera holding. La variante Rossi mina alla radice la ragion d’essere della cooperazione perché sarebbe improprio applicare a una cooperativa ridotta a holding finanziaria il favor fiscale accordato alle attività mutualistiche.

La quarta critica è economica. L’ex Bcc ora S.p.A perderebbe quasi il 20 per cento del patrimonio netto. Un indebolimento grave. In alcuni casi, la Vigilanza dovrebbe imporre aumenti di capitale di ardua esecuzione. L’ex Bcc sarebbe così destinata a essere venduta e il ricavato, 2-300 milioni, anche meno, diventerebbe il tesorettto del cacicco locale, leader dell’ex Bcc… Dov’è la coerenza con la spinta alla concentrazione bancaria che il governo ha impresso con la riforma delle popolari?

La riforma delle Bcc va nella stessa direzione, ma questo opting out rischia di svuotarla, specialmente se l’accertamento della soglia per diventare S.p.A avvenisse 18 mesi dopo l’entrata in vigore della legge: rischieremmo una corsa alle fusioni tra Bcc per superare la soglia e poi monetizzare. Insomma, dovremo pur chiederci perché la Popolare di Milano non sia abbastanza grande per marciare da sola, mentre lo sarebbe una ex Bcc venti volte più piccola.

La quinta critica è istituzionale. Questa deroga deriva da una decisione solitaria di Palazzo Chigi. Rifiuto le dietrologie che insistono sull’origine toscana delle Bcc aspiranti S.p.A. Ve ne sono anche di lombarde, emiliane e piemontesi. Ma mi preoccupa uno stile di lavoro e di rapporto tra istituzioni che suggerisce al governo simili improvvisazioni senza una verifica preventiva con la Banca d’Italia che, comunque, dovrà poi esercitare la Vigilanza.

Una way out andrà probabilmente cercata, ma costruita in modo tale da evitare la destrutturazione dell’impresa cooperativa. Non faccio previsioni sull’iter parlamentare del decreto, ma dico fin d’ora che sarebbe imbarazzante se passasse senza modifiche reali con i voti determinanti di Denis Verdini, a lungo presidente del fallimentare Credito cooperativo fiorentino, “salvato” da Chianti Banca, una delle 14 Bcc tentate dalla S.p.A, con i soldi della solidarietà mutualistica delle altre Bcc.

Categoria Economia

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