La versione della Banca d’Italia
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A Palazzo Koch non intendono farsi processare né dalla Commissione né da Palazzo Chigi. Il sostegno a Draghi (ricambiato), i riconoscimenti di Padoan, i doppi standard tedeschi e il neoeuropeismo disincantato
di Stefano Cingolani | 06 Febbraio 2016 ore 06:12 Foglio
Roma. Anche se quella cattolica si aprirà solo mercoledì, la quaresima è cominciata da tempo per le Borse, le banche, l’economia italiana e internazionale. Mario Draghi ha parlato di forze che “cospirano”, si riferiva alle componenti strutturali che tengono bassi i prezzi, ma è stato preso per il solito complotto pluto-massonico e anche un po’ giudaico. Non è cessato nemmeno il tiro incrociato sulla Banca d’Italia del quale abbiamo scritto sul Foglio la scorsa settimana: le quattro banchette messe in liquidazione (l’Etruria in particolare perché quella politicamente più sensibile), la bad bank, la proposta del governatore Ignazio Visco a proposito del bail-in (non una moratoria, ma “un passaggio graduale e meno traumatico” chiesto, del resto, dall’Italia già due anni fa), tutto finisce nel mirino. La Banca centrale non ci sta e ribatte punto per punto. Negli ultimi giorni ha incassato il sostegno di Pier Carlo Padoan e di Draghi: quando il presidente della Banca centrale europea ha chiesto che il bail-in venga applicato “in modo rigoroso” non voleva rimproverare la posizione italiana, ma criticare il doppiopesismo nel dosare le regole europee.
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Il governo tedesco ha ricapitalizzato la Hsh Nordbank di Amburgo con i denari dei contribuenti, spiegando che aveva ottenuto l’autorizzazione prima che scattassero le nuove regole. Alla Cassa di risparmio di Teramo era stato proposto di coprire le perdite con il fondo interbancario (che non è pagato dai contribuenti), poi sarebbe intervenuta la Banca di Bari, ma Bruxelles lo ha impedito con alcuni sms al ministero dell’Economia. Lo stesso per la Banca delle Marche, anche se c’erano fondi esteri pronti a investire. Lo stop appare pretestuoso e discriminatorio, così come la posizione contro la bad bank.
Visco non è un liberista, sostiene che lo stato “deve intervenire dove il mercato incontra i suoi limiti”, quando si manifestano chiare asimmetrie informative e uno choc esterno. Lo ha scritto e lo ha dichiarato anche nelle considerazioni finali all’assemblea del 26 maggio scorso. L’Italia ha perso dieci punti di prodotto interno lordo, e questa è la prima causa delle sofferenze bancarie, anzi è già un miracolo che il sistema se la sia cavata senza aiuti di stato, come è accaduto invece in Germania e in gran parte d’Europa. Quanto ad asimmetrie e fallimenti c’è solo di che scegliere. Ad esempio, non esiste un mercato italiano dei crediti subordinati, anche per la lentezza e farraginosità delle procedure fallimentari. Dunque, “nel valutare il ruolo pubblico nella prevenzione e risoluzione delle crisi – ha sottolineato il governatore – vanno approfondite le ragioni che differenziano politiche volte ad attivare i meccanismi di mercato da aiuti di stato distorsivi della concorrenza”.
Ma perché questi argomenti non hanno fatto breccia a Bruxelles? La versione strutturale è che i commissari europei per lo più non sono ben attrezzati e si basano sul lavoro di tecnici prigionieri di una cultura della deregulation che non fa i conti con la nuova fase di re-regulation nella quale siamo entrati. La versione politica è la debolezza nella quale si trova l’Italia nei confronti della Commissione Juncker.
Il tutto proprio mentre cresce il rischio di una decomposizione del progetto europeo del quale a Palazzo Koch sono sempre stati sostenitori (e spesso costruttori). Molte cose stanno cambiando: la convinzione che alla moneta senza stato avrebbe fatto seguito in tempi rapidi uno stato, non si è tradotta in realtà. E oggi viene ammesso l’errore di aver fatto entrare subito nell’euro paesi con debiti tanto diversi. Un dubbio sollevato, nella seconda metà degli anni 90 da Antonio Fazio, considerato per questo euroscettico. Anche l’idea tedesca di un’unione a cerchi concentrici che ruoti attorno a un nocciolo duro appare illusoria. Al centro ci sarebbe un nocciolino e non è detto che la Francia possa farne parte. Secondo Visco, invece, bisogna ripartire dalla testa, cioè dall’unione politica.
L’Europa si tiene solo su regole comuni. I cittadini hanno cominciato a sperimentare i costi di questo tipo di unione, mentre cicli elettorali sempre più brevi inducono i governi a catturare il consenso con promesse che non possono mantenere. Ciò vale per tutti non solo per l’Italia. Matteo Renzi non ama i consigli, anche se adesso vuol circondarsi di consiglieri. Ma in Via Nazionale continuano a mettere in guardia dall’illusione dello sguardo breve. Per esempio, invece degli 80 euro, con la stessa spesa sarebbe stato possibile sostenere sia i consumi sia gli investimenti agendo sul costo del lavoro, e ciò vale per l’imposta sulla prima casa.
La Banca d’Italia si fa forte della propria indipendenza, sancita non solo dal sistema europeo delle Banche centrali, ma dalla normativa e dalla prassi italiane. E’ il profilo di un’autorità di garanzia che vale verso la Ue come verso la politica nazionale. I rapporti con i governi, del resto, sono sempre stati dialettici e talvolta critici. Guido Carli denunciò “le arciconfraternite del potere”. Paolo Baffi rischiò gli arresti per una manovra democristiana. Carlo Azeglio Ciampi venne tenuto fuori dalla porta durante le nomine bancarie del governo Craxi. E si potrebbe continuare. Visco, dunque, aggiunge anche la sua alle voci che hanno gridato nel deserto? Non esattamente.
Ci sono alcune scelte chiave delle quali vanno fieri in Via Nazionale. La prima è di aver contribuito in modo determinante a salvare l’euro nel 2012. Quando Draghi ha lanciato la sua frase magica (“whatever it takes”), lo ha fatto perché il Consiglio della Bce si era convinto che la crisi aveva una componente chiave: la scommessa che la moneta unica non sarebbe sopravvissuta. Questo è merito delle analisi e degli argomenti della Banca d’Italia. Lo stesso si può dire per la battaglia contro la deflazione. E’ stato Visco a sostenere apertamente, fin dal 2014, che “l’attuale scenario di inflazione assai bassa non è coerente con l’obiettivo di stabilità dei prezzi”. E gli economisti dell’Ufficio studi hanno fornito le loro stime sui rischi connessi al “disancoraggio delle aspettative”, per convincere i dubbiosi ad andare avanti con il Quantitative easing. Insomma, chi ha preso Palazzo Koch per una palestra piena solo di punching ball, a Roma come a Bruxelles, ha sbagliato indirizzo.
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