Ma perché ci riforniamo di latte tedesco?

Storia di quote (e di vini)

di Giuseppe Sarcina, il Corriere della Sera 3.11.2015

Più che una stalla sembra un laboratorio. Sensori, monitor, cellule fotoelettriche. In Germania anche le mucche devono essere da primato, come hanno potuto verificare gli oltre due milioni di visitatori del padiglione tedesco all’Expo. Quantità e qualità, ricerca scientifica e applicazioni tecnologiche, investimenti ed economie di scala concorrono a spiegare perché il Paese guidato da Angela Merkel sia il maggiore esportatore di latte nel mondo, con quasi 15 milioni di tonnellate, più o meno la metà della sua produzione, davanti a Olanda, Francia e Stati Uniti (dati 2011).

Tra i clienti principali c’è l’Italia che è il primo importatore di latte al mondo e deve acquistare circa il 40% del suo fabbisogno all’estero . Nel 2014 le industrie di trasformazione e le catene di distribuzione hanno comprato un milione e 144 mila tonnellate di latte sfuso oltre frontiera: 404 mila tonnellate, cioè il 35% del totale, sono arrivate dalla Germania. Ancora più alta la quota nel segmento dei formaggi e dei latticini: 263 mila tonnellate made in Germany, il 51% sul totale di 510 mila tonnellate dell’import.(dati Clal.it).

Ma nella storia, nella costruzione di questa ennesima leadership tedesca c’entrano molto la politica, la capacità di pesare al tavolo del negoziato. Prima di tutto nell’Unione europea. L’anno chiave è il 1984, quando la Comunità europea decise di risolvere il cronico problema della sovrapproduzione di latte adottando la stessa formula utilizzata per l’acciaio: a ogni Paese viene assegnata una quota e chi la supera deve pagare una multa. Il presidente del consiglio era il socialista Bettino Craxi; ministro dell’Agricoltura Filippo Maria Pandolfi, un democristiano pragmatico e attento agli interessi delle categorie produttive. Ma la trattativa si chiuse con un risultato deludente per gli allevatori.

Allora come oggi le stalle italiane fornivano la metà del fabbisogno nazionale. Allora come oggi le eccedenze rispetto ai consumi interni si accumulavano altrove: Olanda, Francia, Danimarca e, naturalmente, Germania. Pandolfi accettò che la nostra quota di produzione fosse pietrificata al livello raggiunto nel 1983: 9 milioni di tonnellate all’anno. Dal punto di vista puramente settoriale quell’impegno risultò già all’epoca un’insensata camicia di forza, tanto è vero che negli anni successivi, come si vede nei grafici, gli allevatori italiani furono costretti persino a buttare via il latte per non essere sanzionati.

Ma allora perché il governo di Roma accettò? Il sacrificio sulle stalle fu compensato da vantaggi ottenuti su altre voci agricole, a cominciare dal vino per finire con gli agrumi: comparti nei quali l’Italia aveva accumulato ingenti surplus di prodotto. A trent’anni di distanza continuiamo a comprare latte sfuso dalla Germania per una spesa pari a circa 1,1 miliardi di euro, ma i tedeschi acquistano il 20% del nostro export di vini, per un controvalore analogo, vicino al miliardo di euro.

L’effetto della globalizzazione sta cambiando qualcosa anche qui. La domanda cinese mantiene ad alta quota l’export tedesco, mentre le industrie italiane cominciano a comprare latte e semilavorati dai Paesi dell’Est, Polonia, Slovenia, Ungheria, Lituania. Fenomeni che potrebbero esaurirsi nel tempo: il governo di Pechino si è posto l’obiettivo della autosufficienza in cinque anni. I bassi costi della produzione nell’Est Europa, invece, sembrano destinati ad allinearsi con la media europea nel breve periodo, dissolvendo il vantaggio competitivo rispetto a Germania, Olanda e Francia.

Fonti: Banca Mondiale/Fao/Istat

Categoria Economia

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