CONTRARIAN. Il Sud non cresce? Si cominci da qualche verità su contratti e produttività
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Come ogni anno il rapporto Svimez ha fotografato l’economia del Mezzogiorno.
di Edoardo Garibaldi | 30 Ottobre 2015 ore 17:00 Foglio
Riceviamo e volentieri pubblichiamo:
Come ogni anno il rapporto Svimez ha fotografato l’economia del Mezzogiorno. Come ogni fotografo, però, l’associazione napoletana ha scelto un’angolatura. La solita. Così hanno parlato ancora del divario tra il Nord e il Sud. Dove sta la notizia? E cerca di darvi risposta con le solite ricette e richieste. “Serve una politica economica per il Mezzogiorno”, dicono. “Servono più investimenti pubblici in infrastrutture e sostegno alle imprese”, sostengono. In altre parole: serve più Stato.
Ma per quale motivo si continua a credere che la medesima azione possa portare a risultati differenti? Eppure non può sfuggire che politiche di investimenti pubblici nel Mezzogiorno non siano mancate. Come risultato, lo dicono gli stessi rapporti Svimez, il Sud non ha mai spiccato il volo e dall’inizio della crisi ha perso terreno rispetto al Nord.
Se nel 2015 il Pil del Settentrione cresce dell’1%, il Mezzogiorno rimane inchiodato e registra un timido +0,1%, frenando la crescita italiana complessiva. Il Sud ha quasi il doppio degli abitanti a rischio di povertà rispetto al Nord. E si potrebbe continuare citando cifre che confermano l’arretratezza economica di una parte dell’Italia. Ma come siamo arrivati a questo punto? È o non è il risultato delle politiche del passato? Lo ha spiegato bene Alberto Mingardi sulla Stampa: l’afflusso costante di danaro non ha fatto altro che distorcere sistematicamente l’allocazione delle risorse al Sud relegandolo in uno stato di dipendenza dagli interventi pubblici (come l’Africa subsahariana, ndr).
Ci dobbiamo chiedere dunque quando abbia avuto inizio questa triste storia, ovvero da quando gli individui abbiano barattato la libertà con l’assistenza dello Stato, o un più alto salario nel breve termine con maggiore disoccupazione e povertà nel lungo periodo. Molti concordano sul fatto che l’abolizione delle gabbie salariali sia stato l’inizio della fine. In vigore per oltre un ventennio, dal 1945 al 1970, questo meccanismo di contrattazione salariale divideva l’Italia in quattordici aree, poi ridotte a quattro, e teneva conto del costo della vita per la determinazione della busta paga. Semplificando al massimo: perché pagare un operaio di Reggio Calabria quanto uno di Milano se l’ultimo può avere una vita dignitosa con uno stipendio inferiore?
La fine delle “gabbie” – non il migliore dei mondi possibili sia chiaro – la richiedevano la politica e la pace sociale minacciata dalle agitazioni sindacali sfociate nel famigerato “autunno caldo”: milioni di ore di sciopero gridando all’eguaglianza. Ricordi che fanno venire le lacrime agli occhi di Landini. Ancora una volta, lo Stato, per mano della Intersind, l’associazione delle imprese a partecipazione statale, decise di abrogare le “gabbie”. Di lì a poco cedette anche Confindustria guidata da Renato Lombardi. Le gabbie salariali furono abolite.
Cosa abbia implicato questa scelta è facile da immaginare. Calo della produttività nel Mezzogiorno, calo degli investimenti privati, e una minore redditività di quelli pubblici di pari passo con la produttività dei salariati meridionali. Continuare a chiedere più soldi sarebbe come decidere di buttarne altri, in piena continuità con la tradizione dei professionisti del meridionalismo.
È proprio dalla produttività del lavoro che il riscatto del Sud può partire. Nei giorni scorsi Confindustria e la Cgil sono arrivati ai ferri corti per il rinnovo dei contratti nazionali. Il Governo ha detto che in mancanza di un accordo fra le parti è pronto a intervenire sulla rappresentanza rimettendo al centro la contrattazione di secondo livello per riavvicinare i salari alla produttività effettiva. Gli effetti al Sud si vedrebbero ben presto: molto probabilmente i salari si abbasserebbero o i lavoratori non riceverebbero gli aumenti che hanno avuto anche in questi anni di crisi, d’altra parte però renderebbe dannatamente più attraente per gli investimenti le regioni più arretrate . Privati. Come dice Antonio Martino: “Un salario è basso se il lavoratore lo rifiuta e preferisce non lavorare, è alto se l’impresa ritiene di non poterselo permettere e preferisce non assumere. Qualsiasi altro salario compreso fra questi due limiti è giusto se entrambi concordano sul suo valore”. Il governo prenda questa decisione, ridia la libertà di poter tenere conto delle particolarità di un gruppo più ristretto di individui. Baratterebbe l’illusione quantomai diffusa di poter volare con la dura realtà del lavoro, fatta di un passo dopo l’altro. Sarebbe un ottimo scambio.
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