Diseguaglianza? Alt!
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Frankfurt, filosofo di Princeton, contro la “superficialità” e gli “effetti perversi” di un nuovo mantra
di Marco Valerio Lo Prete | 14 Ottobre 2015 ore 06:27
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Roma. Ci voleva forse un professore di Filosofia di Princeton come Harry G. Frankfurt per scalfire alcune certezze dell’Intellettuale-Politico-Giornalista collettivo post Piketty, quello – per intenderci – ossessionato dalla diseguaglianza che aumenta in ogni dove. Ci voleva sicuramente l’autore di “Stronzate. Un saggio filosofico” (nell’originale inglese: “On Bullshit”), per prendere di petto quello che è diventato il nuovo mantra del discorso pubblico occidentale: la diseguaglianza che cresce in ogni dove, appunto, e che tutto spiega.
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“On inequality”, in uscita per Princeton University Press, prende il via da una dichiarazione del presidente democratico Barack Obama – uno che nel municipio di Princeton nel 2012 raccolse il 75,4 per cento dei consensi – secondo il quale “mettere fine alla diseguaglianza è la sfida più importante della nostra epoca”. Chiosa subito Frankfurt: “Mi sembra, invece, che la nostra sfida più importante non sia costituita dal fatto che i redditi degli americani sono molto diseguali tra loro. Piuttosto la sfida è dovuta al fatto che troppi fra di noi sono poveri”. Il professore di Princeton relega le statistiche alle note a piè di pagina, comunque più agili di quelle (poi contestate) dell’economista francese Thomas Piketty e del suo “Il capitale nel XXI secolo”. Il punto, secondo Frankfurt, è un altro: “L’eguaglianza economica non è un ideale moralmente convincente”. Peggio ancora, “questa credenza tende a produrre danni significativi”. L’argomento più noto, che il filosofo si limita a citare senza smentirlo, è quello secondo il quale l’egalitarismo economico genera un conflitto pericoloso tra uguaglianza e libertà; fino al paradosso secondo il quale, se l’uguaglianza diventa la priorità ai danni della libertà, potremo sempre ottenere un mondo più uguale rendendo tutti quanti poveri e disgraziati allo stesso modo. Tuttavia la tesi più originale del pamphlet è un’altra: “L’ammontare di soldi a disposizione degli altri non ha nulla a che fare, in maniera diretta, con ciò che è necessario per il tipo di vita che una persona ricercherebbe assennatamente e appropriatamente per sé”. Di conseguenza, “la preoccupazione per il presunto valore intrinseco dell’uguaglianza economica tende a distogliere l’attenzione di una persona, allontanandola dal tentare di scoprire (…) quello che gli sta veramente a cuore, quello che davvero desidera o di cui ha bisogno, e quello che gli darà realmente soddisfazione”. Una tale distrazione imposta dalla retorica anti diseguaglianza, secondo Frankfurt, è dunque pericolosa perché “alienante”; separa una persona dalla sua realtà individuale, la porta a concentrare la sua attenzione su desideri e bisogni che non sono i più autenticamente suoi. In questo modo la dottrina disegualitaria “contribuisce al disorientamento morale e alla superficialità della nostra epoca”. Un altro danno è quello inflitto alla classe degli intellettuali, distolti da questioni filosofiche profonde come il valore genuino di ciò che è buono per noi o come il concetto dell’avere a sufficienza, e preoccupati invece da una pappa pronta all’uso come “l’uguale suddivisione” dei beni. A chi sogna una società in cui vigano relazioni fraterne, raggiungibili solo in condizioni di quasi-uguaglianza di reddito, o a chi si allarma per i dislivelli di status sociale o potere politico, Frankfurt consiglia di non nascondersi dietro il dito della diseguaglianza economica e di puntare dritti alla luna per risolvere problemi che nemmeno l’autore nega esistere.
La grande fuga e l’ancella dello sviluppo
D’altronde un suo collega di Princeton, Angus Deaton, è stato appena insignito del premio Nobel per l’Economia “per le analisi sui consumi, la povertà e il benessere”, analisi che pongono in prospettiva storica la “grande fuga” del mondo occidentale dalla fame e dalla malattia. E se la scorciatoia europea è stata quella del capitalismo industriale, Deaton osserva come già da millenni la diseguaglianza sia stata “ancella” dello sviluppo, e come “un mondo migliore produce un mondo di differenze”, perché sempre “le fughe creano diseguaglianze”. Fin dalla rivoluzione neolitica di 10.000 anni fa, se è vero, come sostiene l’economista nella sua ultima opera pubblicata in Italia dal Mulino, che “il mondo migliore – se davvero l’agricoltura ha portato a un mondo migliore – è un mondo più diseguale”. Bando alle ciance, si stava peggio quando si stava peggio.
Categoria Economia
COMMENTI
Lisa Taiti • 3 ore fa
Faccio una riflessione piccola da profana e ignorante in cose di economia. La disuguaglianza è un dato acquisito nella storia dell'uomo, non tutti siamo ugualmente intelligenti, abili, buoni, virtuosi, onesti e così via. Non tutti sono bravi a fare gli imprenditori di successo, non tutti sono protagonisti e c'è chi nasce gregario e magari è maledettamente bravo anche in quello. Il problema vero di questi anni è stata la consapevole abolizione della classe media, quella fatta di gente che cercava un minimo di solidità economica e ci riusciva, in genere meritatamente, e senza pretendere di diventare miliardario. Quella classe media valorizzava i bravi imprenditori, i protagonisti e i gregari allo stesso tempo, e consentiva una certa meritocrazia. E' scomparsa, spremuta, si è impoverita in favore di rendite di posizione, non necessariamente grandi. Ed ecco che la società è bloccata, il cosiddetto ascensore sociale non c'è più. Non so cosa dica Pinketty, ma il problema per me non è essere più povera di Donald Trump, o che un Trump "esista", è non avere chance di guadagnare quanto mio padre, a meno che io non diventi un fenomeno (nelle imprese piccole italiane quelli che emergono, credetemi, sono dei veri fenomeni, in un mondo che li ostacola in ogni modo). Non mi scandalizza il super ricco. Mi scandalizza di più che per qualche motivo debbano scomparire i cari vecchi non ricchi ma benestanti, per creare tantissimi poveri. Secondo me le nostre opportunità stavano lì, e in Italia, con il nostro individualismo e la nostra micro impresa avevamo forse la classe media più florida del mondo, eravamo il paradigma di un successo. Lascio agli studiosi ogni risposta sul perché sia accaduto tutto questo e se mai si potrà, qualche modo, riavvicinarsi a quel modello.