Poste va in borsa. “E io pago…”
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Un altro monopolista “vestito per la festa” che racconta di essere impresa efficiente, orientata al mercato, e che farà sognare gli investitori
10.10.15 Carlo Scarpa, La voceinfo
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Mentre si cerca di far crescere il resto del paese liberandolo da lacci e laccioli inutili, la privatizzazione di Poste italiane è segnata da una serie di provvedimenti di segno opposto. Grazie al Tesoro, al Parlamento e all’Agcom. Una privatizzazione pagata dagli utenti e dai concorrenti di Poste.
Poste Italiane arriva in borsa. Un altro monopolista “vestito per la festa” che racconta di essere impresa efficiente, orientata al mercato, e che farà sognare gli investitori. Speriamolo, per carità. Ma la realtà per ora è diversa. Poste italiane (Pi) è un conglomerato assai complesso, con una sovrapposizione inestricabile di servizi postali, finanziari e di altro tipo (dal fondo pensione alla telefonia mobile). E arriva in borsa esattamente con questa struttura un po’ minestrone.
L’abc della finanza ti dice che, se vuoi veramente valorizzare un tuo asset, conviene prima separare le diverse linee di business e poi venderle, in modo che chi sia interessato alla banca compri la banca e non altro, e così via. Perché fare il contrario? Perché se smonti questo conglomerato succedono due cose. La prima è che la principale leva di Poste, ossia il monopolio nella grande parte del settore postale, verrebbe depotenziata. Senza la presenza capillare degli uffici postali, Poste italiane non sarebbe una banca diversa dalle altre. E anche le normali imprese telefoniche “virtuali” non riescono certo ad attirare gli investitori quanto Poste mobile, che ad esempio conta sul potere di mercato negli altri servizi per sostenere i suoi servizi finanziari tramite rete telefonica: chi altri potrebbe farlo?
La seconda cosa è che frazionando emergerebbe l’insostenibilità del core business. Questo è anche legato a un mercato strutturalmente in declino, certo. Ma le inefficienze di Pi, ben note e mai intaccate (anzi…) negli anni passati, non sono state certo eliminate dall’attuale gestione, la cui mission è vendere in fretta, magari nascondendo le magagne sotto il tappeto.
Ministero e Agcom in soccorso di Poste
A questo fine, il Parlamento e l’autorità di settore stanno ulteriormente violentando le regole della concorrenza, con alcuni ritocchi finali volti a proteggere ulteriormente il monopolio di Poste. Si tratta di due chicche e un fantasma.
La prima è l’intervento che il Parlamento ha effettuato, istigato dal Tesoro, per rinviare la liberalizzazione del mercato degli atti giudiziari. Oggi solo Pi può inviare tali atti. Perché? Non si sa – certo non è l’affidabilità della consegna delle loro lettere a garantire loro tale posizione. La liberalizzazione era prevista dal ddl Concorrenza oggi in discussione al Parlamento, ma è stata rinviata a metà 2017 – per ora. L’aspetto paradossale è che, secondo stime di Poste avallate dal ministero dell’Economia, la piena liberalizzazione del recapito degli atti giudiziari avrebbe determinato un minor gettito dalla vendita tra 650 e 900 milioni di euro. La stima del ministero colpisce: poiché questi atti determinano ricavi di 222 milioni su un totale di 28 miliardi, mentre il valore di quotazione si colloca tra 7,8 e 9,8 miliardi, se ne deduce che quasi il 10 per cento del valore di borsa dipenderebbe da meno dell’1 per cento dei ricavi. Delle due l’una: o la profittabilità di Poste dipende quasi solamente dal mantenimento delle residue nicchie di monopolio legale, oppure qualcuno informa male i parlamentari.
La seconda è l’intervento dell’Agcom con la delibera 396/2015, che invece di estendere l’ambito della concorrenza ha inusitatamente deciso di allargare il perimetro del servizio universale con un nuovo servizio “posta prioritaria premium” che di fatto rappresenta una sovrapposizione con il servizio di corriere espresso, da sempre escluso dal perimetro del servizio universale. In questo modo Poste fa meglio concorrenza ai privati soprattutto nei servizi di e-commerce di consegne leggere, e godrebbe perfino dell’esenzione dall’Iva. Oltre tutto, questo aggira una misura introdotta solo 12 mesi fa nel decreto Competitività, che sottraeva all’area di esenzione Iva proprio i servizi “negoziati individualmente”, ossia – sostanzialmente – le attività B2B. Probabilmente tra qualche tempo questo sarà bollato come aiuto di stato e la Commissione europea ne imporrà il rimborso ma intanto Poste incassa.
Chi tutela la concorrenza?
L’Antitrust starà a guardare? Mi piacerebbe saperlo, perché accanto a questi provvedimenti, girano altri emendamenti interessanti. Uno è finalizzato a rimandare al 2019 le verifiche sulla qualità del servizio universale, proprio in corrispondenza della scadenza del contratto di programma: quando i buoi saranno scappati dalla stalla. L’altro invece (bocciato nell’ambito del ddl Concorrenza ma, pare, pronto a riaffacciarsi) serve a liberare Poste da eventuali obblighi di terzietà nell’accesso alla rete, nel momento in cui la rete serve a vendere prodotti che non afferiscono al servizio universale (non solo prodotti banco-assicurativi ma anche libri o elettrodomestici).
Il fantasma è poi la minaccia di istituire il fondo di compensazione per il costo del servizio universale, finanziato dai concorrenti di Pi. Sacrosanto principio. Peccato che il perimetro del servizio universale comprenda anche servizi che le direttive e la Corte di giustizia europee dicono che devono andare a mercato. E peccato che il costo del servizio universale sarà verosimilmente calcolato sugli (altissimi) costi di Poste italiane senza che si provi neppure a fare una gara per capire chi potrebbe effettuare quel servizio e a quali costi.
Diciamo che la privatizzazione avrà luogo, ma non senza costi. Per gli utenti e per le altre imprese. Li chiameranno proventi da privatizzazione. A me sembrano più simili a imposte.
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