La riformetta fiscale
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Possiamo dire che il sistema tributario è stato riformato? Per l’equità, pesa il mancato intervento sul catasto, mentre su certezza e semplificazione qualche miglioramento è arrivato.
29.09.15 Lavoce info Tommaso Di Tanno
Con l’approvazione degli ultimi cinque decreti attuativi si è concluso il lungo cammino della riforma fiscale. Ma possiamo dire che il sistema tributario è stato riformato? Per l’equità, pesa il mancato intervento sul catasto, mentre su certezza e semplificazione qualche miglioramento è arrivato.
Solo interventi migliorativi
Con l’approvazione degli ultimi cinque decreti attuativi si è concluso il lungo cammino della riforma fiscale (legge 23/2014). Davvero è stato riformato il nostro sistema tributario? Parrebbe proprio di no.
Il cammino della riforma comincia con la proposta presentata dal governo Monti il 18 giugno 2012 (n. 5291) e ripresa dal disegno di legge 282 del 15 marzo 2013 (governo Letta). Nell’illustrare quest’ultimo i presentatori, con apprezzabile realismo, chiarivano subito che le “norme proposte non hanno l’obiettivo di disegnare un’organica riforma del sistema generale di tassazione” mirando, piuttosto, “ad attuare interventi migliorativi del sistema fiscale in termini di equità, certezza delle regole e semplificazione”.
Il sistema, insomma, resta quello disegnato dalla riforma fiscale del 1971: quella che ha creato la dichiarazione dei redditi, la ritenuta alla fonte e l’Iva. Ma che spaziava in una società dove i confini nazionali erano ben netti, industria e finanza realtà separate, le multinazionali solo agli albori, la Cina un paese sottosviluppato, le parole “internet” o “globalizzazione” del tutto inesistenti. E dove il 50 per cento delle attività economiche italiane appartenevano allo Stato. Che c’azzeccano, allora, norme concepite in quel quadro con la realtà attuale?
Un pizzico di ambizione in più non avrebbe guastato. Si è preferito, invece, il realismo. Ma sono stati almeno raggiunti i pur più modesti obiettivi che ci si era prefissi? Fra quelli enunciati – equità, certezza e semplificazione – risponderei di no per il primo, di sì per gli altri due.
Il catasto resta com’è
Il pezzo forte della “equità” stava nella delega per la riforma del catasto, che non è stata esercitata. È arcinoto che il catasto costituisce lo strumento base per la regolamentazione del settore immobiliare e che le classificazioni e i valori che esprime sono – e lo sono da tempo – del tutto inadeguati a fotografare in misura anche solo minimamente attendibile la situazione effettiva. Ma classificazione e valori catastali sono alla base di qualsivoglia forma di tassazione immobiliare, tanto che verta in tema di rendita teorica degli immobili ai fini delle imposte sul reddito, quanto che si discuta di valori di mercato rilevanti per le imposte sui trasferimenti, quanto che se ne apprezzino le specificità ai fini della tassazione da parte degli enti locali. Insomma, un catasto carente sotto il profilo della fotografia della situazione immobiliare effettiva mantiene tutte le ingiustizie da tempo unanimemente individuate e accentua i caratteri distorsivi della pur opportuna maggior tassazione del settore.
A queste considerazioni di merito va aggiunta quella di metodo che l’attuazione di una riforma in questo ambito richiede tempi di “lavorazione” prolungati e che più tardi ci si mette all’opera, più se ne allontanano i risultati.
Certo, della “equità” fa parte anche il sistema sanzionatorio e la sua riforma merita apprezzamento. Da sottolineare, in particolare, la più chiara definizione di comportamenti così offensivi da meritare la sanzione penale – tutti quelli che contengono una falsificazione esplicita – rispetto a quelli che si limitano a interpretazioni di comodo o a semplici ritardi nei pagamenti (se non stratosferici), per i quali può bastare una, anche severa, sanzione amministrativa.
Il punto su certezza e semplificazione
Migliore è, invece, il giudizio su “certezza” e “semplificazione”.
La “certezza” di un sistema tributario, sia chiaro, era e resta un’araba fenice. Il sistema si esprime con norme; queste sono sequenze di parole ed è impossibile che il loro significato sia sempre e comunque inequivoco. La realtà, poi, è soggetta a cambiamenti e fenomeni non considerati dal legislatore si affacciano continuamente, così da creare inevitabilmente situazioni nuove e opinabili.
La ricerca della “certezza” non può che ruotare, allora, intorno a strumenti di definizione – non penalizzante per alcuna delle parti in causa – delle fattispecie dubbie. E su questo terreno i decreti delegati svolgono adeguatamente il proprio ruolo. Lo fanno con due distinte normative: attraverso una più chiara definizione di che cos’è “elusione” o “abuso di diritto”; e attraverso una più efficace sistematizzazione del dialogo fra contribuente e fisco (i decreti sull’interpello). Entrambi gli istituti richiedevano un più chiaro quadro definitorio, che oggi esiste. Ma non ne va sopravvalutata la portata, visto che il quadro migliora solo in relazione ai concreti comportamenti dell’amministrazione finanziaria. Essa deve migliorare, in particolare, sulla capacità di comprendere le problematiche che le vengono sottoposte e sulla tempistica delle risposte. Tematiche che generano problemi sia di ordine organizzativo che di costo di un personale altamente specializzato e, come tale, appetibile per la concorrenza (cioè il mondo delle imprese e delle professioni). Per dire: gli interpelli si presentano alla Direzione regionale competente per territorio. Ha senso dotare la Direzione regionale del Molise o della Val d’Aosta di personale così qualificato? Chi si occupa di ruling internazionali – con problematiche riferite perlopiù a multinazionali – può rientrare in percorsi di carriera ordinari? La riforma avrebbe dovuto cimentarsi anche con queste, non secondarie, circostanze. Non lo fa e fare lo struzzo spesso non paga.
Sulla “semplificazione” gli interventi paiono incisivi e graditi. Ma sparpagliati in più decreti, il che è per certi versi inevitabile. Anche in questo caso rilevano più i comportamenti concreti dell’amministrazione finanziaria che le pur utili norme varate. E rilevano le modalità organizzative che è chiamata a darsi con normazione interna tutta da scrivere.
Positivo è, infine, il giudizio sul decreto sul monitoraggio dell’evasione fiscale. Non per gli obiettivi di riduzione del prelievo che ne possono derivare; ma perché definisce luoghi e strumenti di misurazione del fenomeno che consentiranno nel tempo di discutere meno sull’onda di sensazioni o estrapolazioni da ricerche di terzi e più sulla base di mirate conoscenze proprie.
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