Cresce lo squilibrio tra pubblico e privato. Cosa lega una riforma della scuola annacquata e una Corte pro travet
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. Eppure le sentenze dei giudici costituzionali non fanno che aggravare lo squilibrio tra lavoratori pubblici e privati, e relative aree sociali; nonostante che l’articolo 3 della Carta predichi il contrario
di Redazione | 25 Giugno 2015 ore 20:24 Foglio
L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro, dice il primo articolo della Costituzione, e benché la formulazione del Dopoguerra sia un po’ da socialismo reale non aggiunge che quel lavoro debba essere statale. Eppure le sentenze dei giudici costituzionali non fanno che aggravare lo squilibrio tra lavoratori pubblici e privati, e relative aree sociali; nonostante che l’articolo 3 della Carta predichi il contrario: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”. Al contrario la sentenza che obbliga il governo a togliere il blocco ai contratti dei pubblici dipendenti allarga ulteriormente il solco, anche se non prevede il pagamento degli arretrati a differenza del verdetto sulle pensioni. Il quale, se fosse stato applicato interamente avrebbe prodotto un buco di bilancio a carico di tutti i cittadini e a beneficio di una minoranza. E per inciso: le pensioni sono certo pubbliche e private, ma anche lì a ricorrere e vincere è sempre il top dello stato, per l’esattezza i magistrati.
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Torniamo all’oggi. I dati Istat parlano chiaro: la media retributiva del settore pubblico è superiore del 6 per cento al privato, pur scontando dal 2010 la dinamica negativa del blocco. Inoltre ad alcune categorie – magistrati, diplomatici, Forze armate – gli stipendi erano già stati sbloccati. Sia chiaro, non c’è da invocare un intervento a pareggio della Consulta sul lavoro privato, affidato com’è giusto al libero mercato. Sarebbe però l’ora di parlare oltre che di diritti anche di doveri. E per esempio spiegare perché a detta di molti giuristi, e dei politici che si accodano, non sia applicabile il Jobs Act a statali e affini in quanto la Costituzione non lo consentirebbe. Oppure come mai, in nome dei diritti e mai dei doveri, si siano opposti mille ostacoli sindacali, giuridici e mediatici a una riforma meritocratica della scuola, con i presidi definiti chissà perché “sceriffi”. Ieri alla fine il ddl sulla riforma della scuola è stato approvato con voto di fiducia, ma parzialmente svuotato dei suoi contenuti più dirompenti. Rischia di andare così pure per la riforma della Pubblica amministrazione, con deroghe e tutele particolari sollecitate all’ombra delle audizioni parlamentari dai magistrati ai più alti livelli. Eppure un pubblico dipendente, e tanto più un pubblico dirigente, in quanto pagato da tutti, ha responsabilità e doveri in più, non in meno. Al contrario, c’è sempre una Consulta, un Consiglio di stato, un Tar, insomma qualche toga, o un sindacato, a tutelare solo i diritti.
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