I nazional-socialisti

Il governo promette a Bruxelles privatizzazioni, ma prepara le nazionalizzazioni: dall’acqua ad Alitalia, da Autostrade a Bankitalia. Costo: 80 miliardi. Catalogo dello stato imprenditore (indebitato) gialloverde

di Luciano Capone e Carlo Stagnaro 13 Maggio 2019 www.ilfoglio.it

“Nazionalizzazione? Non si può escludere nulla”. Dopo il ritiro del fondo americano Blackrock, il viceministro leghista alle Infrastrutture, il genovese Edoardo Rixi, preannuncia quale potrà essere la soluzione per Banca Carige: un salvataggio pubblico come nel caso di Mps, anche se in questa volta sarà più difficile sostenere, data la dimensione locale dell'istituto di credito, che si tratta di un intervento sistemico. In ogni caso Rixi, usando il termine “nazionalizzazione”, invece del più tecnico “ricapitalizzazione precauzionale”, compie un atto di trasparenza e sincerità. Perché, pur essendo la strategia di politica economica preferita da una maggioranza che vede l’intervento pubblico come la soluzione per ogni tipo di problema, il termine non compare mai nei documenti ufficiali. Paradossalmente è invece molto presente il suo contrario, che non trova spazio politico né concreta applicazione.

  

Al termine del primo quadrimestre, non è stato compiuto alcun passo concreto per mettere in vendita asset pubblici

    

Nel Documento di economia e finanza 2019, la parola “privatizzazioni” ricorre dodici volte, sempre in relazione alla riduzione del debito pubblico. Per esempio, a pagina 5 del Def si legge che “il rapporto debito/pil nel 2019 è stimato al 132,8 per cento del pil, includendo proventi da privatizzazioni pari all’1 per cento del pil” (in realtà, nelle previsioni di Primavera appena rilasciate la Commissione Ue ha già alzato l’asticella al 133,7 per cento quest’anno e 135,2 per cento il prossimo). Il Programma nazionale di riforma – il principale allegato al Def con cui il Governo italiano risponde alle raccomandazioni della Commissione europea – aggiunge che “nel triennio 2019-2021 il programma straordinario di dismissioni immobiliari prevede un ammontare di 1,25 miliardi, oltre agli 1,84 già previsti. Confermati introiti da privatizzazioni e da altri proventi finanziari per circa 1 punto percentuale del pil nel 2019 e dello 0,3 per cento nel 2020”. Quanto sono credibili queste stime? La risposta sta nel calendario e inizia a filtrare tra le fila della maggioranza: al termine del primo quadrimestre, non è stato compiuto alcun passo concreto per mettere in vendita asset pubblici. Non siamo neppure allo stato embrionale. Eppure la cessione di immobili è un processo lento e complicato: negli otto mesi scarsi che mancano alla fine dell’anno, è del tutto inverosimile che il governo sia in grado di decidere quali immobili cedere, superare le difficoltà legate alla frammentazione degli enti proprietari, trovare compratori e spuntare un “giusto” prezzo. Lo stesso presidente della Commissione bilancio della Camera, Claudio Borghi, avrebbe detto a Reuters che il programma di privatizzazioni pari all’1,3 per cento del pil è “una chimera”.

    

Tuttavia, sarebbe riduttivo limitarsi alle problematiche tecniche. C’è un ostacolo ben più significativo: forse volere non sempre è potere, ma certamente non volere è non fare. Mentre a Bruxelles l’esecutivo promette privatizzazioni, a Roma persegue una traiettoria culturale e politica ben diversa, quella del nazionalismo e socialismo economico. Il risultato è che non solo potrebbero mancare le risorse per fermare – o quantomeno rallentare – la crescita del debito pubblico, ma potrebbero addirittura essere necessarie risorse aggiuntive, cioè ulteriore indebitamento, per finanziare l’espansione dello stato padrone in aziende e settori a cui oggi è estraneo. Infatti, le forze della maggioranza hanno sostenuto e, in alcuni casi, avviato veri e propri processi di nazionalizzazione di imprese private. Al di là della new entry Carige, il caso più clamoroso (e avanzato) è quello di Alitalia, la compagnia di bandiera tecnicamente fallita. Dopo aver incamerato i 900 milioni di euro del prestito ponte erogato dal governo Gentiloni (peraltro in probabile violazione della disciplina europea sugli aiuti di stato), il vettore è in procinto di essere acquisito da una cordata ancora nebulosa. La nebulosità riguarda solo i soci privati, perché il coinvolgimento pubblico, attraverso il Tesoro, le Ferrovie, e forse la Cassa depositi e prestiti, è ormai certo. Ipotizzando che la compagnia continui a perdere 500 milioni di euro l’anno e che lo stato si faccia carico della metà delle perdite dall’anno prossimo in poi, oltre che del prestito ponte, serviranno almeno 3,5 miliardi di euro nei prossimi cinque anni.

      

Con le nazionalizzazioni il governo farebbero del male al paese, con la riclassificazione di Cdp limiterebbe il suo spazio di manovra

    

Poca roba, rispetto al costo che avrebbe – se approvata – la proposta di legge Daga sull’acqua pubblica, molto cara al M5s e non priva di attrattività per la sinistra del Pd e per la sinistra-sinistra degli ex Leu. La trasformazione degli attuali gestori idrici in enti pubblici costerebbe attorno ai 10 miliardi di euro solo per gli indennizzi ai gestori uscenti, più circa 17 miliardi di euro di debiti finanziari che dovrebbero essere consolidati nel debito pubblico e 2-4 miliardi di euro annui per finanziare i nuovi investimenti. In tutto, il debito pubblico crescerebbe di almeno 30 miliardi.

  

Il governo ha in cantiere anche la nazionalizzazione delle Autostrade. La minaccia era stata sollevata con forza all’indomani del crollo del Ponte Morandi, quando lo stesso premier, Giuseppe Conte, si era affrettato ad annunciare “l’avvio della procedura di caducazione della concessione” di Autostrade per l’Italia: “Non possiamo aspettare i tempi della giustizia”, dichiarò il premier-giurista. Il ministro dei Trasporti, Danilo Toninelli, che più di tutti si è battuto per una revoca immediata della concessione di Aspi si è spinto a minacciare anche la pubblicizzazione dell’Autobrennero (che però è già pubblica per l’85 per cento) e ha comunque ribadito, lo scorso gennaio, che “la nazionalizzazione è un indirizzo di questo governo”. La cessazione anticipata della concessione per la sola Aspi potrebbe avere un costo attorno ai 20 miliardi di euro; ma poiché Aspi gestisce poco meno la metà della rete autostradale italiana, e tenendo conto che alcuni degli altri concessionari sono già in mani pubbliche, si può conservativamente stimare il costo dell’intera operazione attorno ai 30-35 miliardi di euro.

    

Così, potrebbero essere necessarie risorse aggiuntive per finanziare l’espansione dello stato padrone in aziende e settori a cui oggi è estraneo

      

Di rete in rete: “Non c’è nessuna volontà di fare espropri proletari, ma faremo in modo che si crei un unico player italiano che permetta la diffusione per tutti i cittadini di internet e banda larga”, ha dichiarato a novembre il ministro dello Sviluppo economico, Luigi Di Maio. Per ribadire poi a febbraio: “Se si vorrà fare un’operazione di mercato per creare un soggetto unico della connettività in Italia abbiamo creato i presupposti normativi per farlo”. L’operazione “di mercato” riguarda lo scorporo della rete telefonica da Tim, per conferirla all’interno di un’unica società assieme agli asset di Open Fiber, chez Cdp. Il valore dell’infrastruttura Tim è stato valutato in circa 9-15 miliardi di euro da Elliott, il fondo che col 9 per cento del capitale dell’azienda ne ha preso il controllo anche grazie al supporto del 5 per cento in pancia a Cdp.

    

Nel vasto programma di nazionalizzazioni non bisogna dimenticare quella della Banca d’Italia, benché la Banca centrale sia già un istituto di diritto pubblico. In questo caso la proposta è di Fratelli d’Italia, prima firmataria Giorgia Meloni, ma è largamente condivisa da entrambe le forze di maggioranza, non a caso il testo ricalca una proposta di legge del M5s del 2016, presentata dalle migliori menti economiche del movimento: il sottosegretario al Mef Alessio Villarosa (colui che si è avvicinato allo studio del sistema bancario attraverso i video sui “rettiliani”); la presidente della commissione Finanze Carla Ruocco (celebre per le domande al governatore Ignazio Visco sull’oro di Bankitalia); il presidente della commissione Bilancio Daniele Pesco (che voleva Elio Lannutti, il senatore grillino che fa i tweet antisemiti sui Savi di Sion, al Quirinale) e il sottosegretario all’Interno Carlo Sibilia (esperto di allunaggi). E non è un caso che la relatrice della proposta della Meloni sia una deputata del M5s, Francesca Ruggiero, che ha dichiarato: “Riportiamo l’istituto in mani pubbliche”. Ma quanto costerebbe? Secondo la proposta 156 mila euro, ma in realtà oltre 7 miliardi. L’idea è di abolire la riforma del 2013 che ha rivalutato il capitale della Banca d’Italia da 156 mila euro a 7,5 miliardi di euro per poi far comprare al Tesoro, dopo averle svalutate, tutte le quote in mano agli istituti privati. Ma naturalmente è una proposta incostituzionale, anche rispetto all’art. 43 della Costituzione che consente l’esproprio per “interesse generale” ma prevede di pagare un “indennizzo”. E i soggetti privati che posseggono quote di partecipazione al capitale della Banca o hanno pagato le tasse sulla plusvalenza della rivalutazione (1,8 miliardi finiti nelle casse del Tesoro) oppure le hanno acquistate successivamente all’attuale valore (è accaduto per circa un terzo del capitale, ovvero 2,5 miliardi). Gli istituti hanno pagato le quote al valore fissato ex lege di 25 mila euro, ma la proposta della Meloni prevederebbe un risarcimento pari al valore del 1936, e cioè 1.000 lire ciascuna (ovvero 0,52 euro). Qualora la legge passasse, lo stato sarebbe condannato a risarcire i soggetti espropriati: costo complessivo oltre 7 miliardi (7,5 miliardi, che è il valore del capitale, meno il 6 per cento detenuto da istituti pubblici come Inps e Inail).

  

 

La proposta di legge Daga sull’acqua pubblica costerebbe fino a 30 miliardi. La nazionalizzazione delle Autostrade altri 30-35  

  

A parte l’inverosimile nazionalizzazione di Bankitalia (a cui si aggiunge la battaglia sulla proprietà delle riserve auree), in tutte queste operazioni – quelle vere (Alitalia), verosimili (acqua, rete Tim) o sul viale del tramonto (Autostrade) – un ruolo centrale dovrebbe ricoprirlo la Cassa depositi e prestiti. Da un lato, essa viene presentata dal governo (questo come quelli precedenti) alla stregua di un soggetto privato: se il Tesoro vende un asset alla Cassa, contabilmente si ha una riduzione del debito pubblico, ma il controllo ultimo rimane in capo all’esecutivo. Dall’altro lato, la Cdp viene tirata per la giacchetta come strumento per rastrellare partecipazioni senza avere formalmente un coinvolgimento pubblico (citofonare Tim). Sempre secondo questo schema Cdp starebbe per entrare in Salini-Impregilo (per aiutarla a salvare Astaldi) – ma anche qui “solo nell’ambito di un’operazione di mercato” assicura Di Maio – e addirittura si discute apertamente di un ingresso nel capitale di Atlantia (per spingerla a salvare Alitalia).

    

Ma siamo sicuri che questo giochetto possa durare ancora a lungo? E’ da almeno una decina d’anni che le istituzioni europee s’interrogano sulla natura della Cassa. Dal punto di vista sostanziale si tratta indubbiamente di un soggetto pubblico: oltre l’80 per cento del capitale è in capo al Tesoro, e il restante meno del 20 per cento alle fondazioni di origine bancarie, anch’esse realtà anfibie nella tradizionale divisione tra pubblico e privato. Formalmente, la Cdp ha sempre rivendicato la propria autonomia e le fonti privatistiche di raccolta dei fondi che amministra (il risparmio postale). Tuttavia, proprio la disinvoltura con cui viene impiegata la fa apparire come il braccio armato del governo, piuttosto che come la cassaforte degli italiani. Recentemente, poi, Istat ed Eurostat hanno riclassificato diverse entità, inizialmente ritenute “private”, all’interno del perimetro della pubblica amministrazione: tra le altre, Rete ferroviaria italiana, Invitalia, Trenord e l’Acquirente unico. E questa riclassificazione ha comportato un incremento del debito pubblico di circa 5 miliardi. I tecnici della Commissione potrebbero essere sempre più insospettiti dalla condotta di Cdp e potrebbero far scattare la riclassificazione anche per l’organismo guidato da Fabrizio Palermo.

  

Se la Cdp rientrasse nel perimetro pubblico ne seguirebbero almeno due conseguenze rilevanti. In primo luogo, non sarebbe più possibile fare finte privatizzazioni giocando sul trasferimento di asset da una parte all’altra: la cessione di partecipazioni azionarie dal Tesoro alla Cassa non avrebbe alcun effetto sul debito pubblico, perché resterebbe tutto in casa (pubblica). Secondariamente, le operazioni della Cdp sarebbero soggette a uno scrutinio ancora più severo, perché sorgerebbe una legittima presunzione che i suoi interventi azionari rispondano a finalità politiche e non economiche e, dunque, costituiscano aiuti di stato. In sintesi, il governo è vittima di un doppio paradosso. A parole (nel Def) promette di imbrigliare il debito con le privatizzazioni, mentre con le opere potrebbe far esplodere il debito a suon di nazionalizzazioni. Un effetto collaterale potrebbe essere quello di far cadere ogni illusione riguardo la natura privata di Cdp. Con le nazionalizzazioni, Matteo Salvini e Luigi Di Maio farebbero del male al paese; con la riclassificazione della Cassa, limiterebbero il proprio spazio di manovra. Inutile ricordare come Carlo Maria Cipolla definiva chi, danneggiando gli altri, danneggia anche se stesso.

Solo gli utenti registrati possono commentare gli articoli

Per accedere all'area riservata