IL LATO PERVERSO DELLA CONTRATTAZIONE CENTRALIZZATA
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In molti Paesi europei i salari sono determinati da accordi collettivi nazionali che sulla carta dovrebbero far aumentare i salari e ridurre le disuguaglianze;
3.5.2019 www.pietroichino.it
ma un confronto Italia-Germania mostra che il sistema italiano centrato sulla contrattazione nazionale genera squilibri regionali costosi per tutti
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Articolo di Tito Boeri, Andrea Ichino, Enrico Moretti e Johanna Posch, pubblicato sul sito VoxEu, tradotto e ripreso da lavoce.info il 24 aprile 2019 – In argomento v. anche Problemi costituzionali in tema di standard retributivo minimo inderogabile
Si ritiene spesso che la contrattazione salariale centralizzata riduca le disuguaglianze di reddito e salariali (vedi la rassegna di Atkinson e Brandolini (2006) e in particolare gli articoli ivi citati di Wallerstein (1999), Rueda e Pontusson (2000) e Mahler (2004) ). Ma nei mercati del lavoro in cui vi sono grandi differenze di produttività tra le varie regioni e tra le aree urbane e quelle rurali, contratti collettivi fortemente centralizzati possono aumentare la dispersione dei salari e dei redditi. La contrattazione centralizzata riduce la dispersione dei salari nominali, ma tende ad aumentare la dispersione dei salari reali, tenendo conto delle differenze nel costo della vita nelle diverse regioni. Inoltre salari fissati a livelli che uguagliano domanda e offerta di lavoro nelle regioni ad alta produttività accrescono anche le diseguaglianze di reddito generando allocazioni inefficienti, in particolare creando più disoccupazione nelle aree a bassa produttività.
Italia e Germania
In un recente lavoro (Boeri et al. 2019) studiamo la relazione tra contrattazione centralizzata e distribuzione del reddito confrontando le istituzioni che fissano i salari e i loro effetti sui mercati regionali del lavoro in Italia e Germania. A partire dalla riunificazione tedesca, i due paesi hanno differenze geografiche nei livelli di produttività del lavoro comparabili. In Italia il nord è più produttivo del sud, mentre in Germania l’ovest è più produttivo dell’est. Il divario di produttività nord-sud italiano è incredibilmente simile a quello tedesco ovest-est. Nel 2014, la differenza nel valore aggiunto medio tra le imprese dell’Italia settentrionale e quelle dell’Italia meridionale era del 19,0 per cento; la stessa differenza tra le imprese della Germania occidentale e orientale era del 19,9 per cento.
I due paesi hanno adottato due modelli diversi di contrattazione salariale. In Italia i salari vengono determinati sulla base di contratti nazionali che consentono aggiustamenti salariali limitati a livello locale. Ciò significa che, in ogni settore, le imprese nelle aree ad alta produttività e a bassa produttività condividono fondamentalmente lo stesso livello salariale. La Germania, invece, ha un sistema più flessibile che consente la contrattazione a livello locale. Tenendo conto della minore produttività nell’est del paese, dal 1996 la Germania ha utilizzato “clausole di uscita” che consentono alle imprese di negoziare a livello locale con i sindacati, potenzialmente derogando agli accordi nazionali (Schnabel 1998).
A causa di queste diverse strutture di contrattazione nei due paesi, la dispersione dei salari nominali è inferiore in Italia che in Germania. In Italia c’è un livellamento salariale molto più forte tra le diverse aree territoriali. A parità di caratteristiche dei lavoratori, scopriamo che la differenza dei salari medi tra il 90esimo e il decimo percentile della distribuzione dei salari nominali nelle diverse province è del 10,3 per cento in Italia mentre è quattro volte più forte, pari al 42,9 per cento, in Germania. La differenza salariale media tra il nord e il sud in Italia è del 4,2 per cento, mentre la differenza media ovest-est in Germania è del 28,2 per cento.
Le imprese tedesche sono molto più in grado di mettere in relazione i salari nominali alla produttività locale di quanto possano fare le imprese italiane. Mostriamo che i salari in Germania rispondono alle differenze nel valore aggiunto locale quattro volte di più che in Italia (l’elasticità dei salari al valore aggiunto è dello 0,19 in Italia e pari a 0,73 in Germania).
Due diversi equilibri sul territorio
In Italia, dove i salari nominali non possono adeguarsi completamente ai livelli di produttività locali, le province con bassa produttività hanno tassi di disoccupazione più alti. Questo perché le imprese nelle province a bassa produttività devono pagare salari al di sopra del livello che permetterebbe di mantenere la disoccupazione a livelli fisiologici.
In Germania, dove gli stipendi possono invece adeguarsi in misura maggiore alla produttività locale, la disoccupazione è molto meno sensibile alle differenze locali nel valore aggiunto (l’elasticità della disoccupazione al valore aggiunto in Italia è quasi sei volte superiore a quella della Germania).
Allo stesso tempo, i prezzi delle abitazioni nelle province a bassa produttività sono più bassi sia in Italia che in Germania, in quanto i lavoratori si spostano dalle aree a bassa produttività a quelle ad alta produttività. Questo genera una relazione positiva tra produttività locale e prezzi delle abitazioni, determinando differenze nel costo della vita tra le varie aree.
In Italia, dove la distribuzione dei salari nominali è fortemente compressa tra province, il potere d’acquisto dei salari (tenendo conto del costo della vita a livello locale) è inferiore nelle province settentrionali che nelle province meridionali, poiché il sud ha bassi costi abitativi ma salari nominali simili a quelli del nord. Al contrario, in Germania non osserviamo salari reali più bassi nell’ovest rispetto a quelli nell’est, perché i salari nominali variano di più tra le diverse aree geografiche. Queste differenze importanti nel modo in cui i salari reali reagiscono ai divari di produttività nei due paesi sono illustrate nella Figura 1.
Figura 1 Differenze nella risposta del salario reale alla variazione del valore aggiunto, Germania e Italia.
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(b) Germania
La contrattazione centralizzata ha quindi generato in Italia un equilibrio territoriale tale per cui i lavoratori del sud faticano enormemente per trovare lavoro. Se trovano un impiego, questo in termini di potere d’acquisto è meglio remunerato che al nord, ma mentre sono in coda per cercare di trovare lavoro stanno molto peggio dei loro omologhi al nord. Ciò si traduce in una allocazione inefficiente delle risorse, con una disoccupazione e una dispersione dei redditi elevate.
Abbiamo cercato di quantificare i costi derivanti da questa inefficiente allocazione geografica in Italia in termini di salari e occupazione. Se l’Italia adottasse un sistema simile a quello della Germania – con relazioni tra salari e valore aggiunto e tra disoccupazione e valore aggiunto uguali a quelle osservate in Germania – secondo le nostre stime i salari medi nelle province meridionali diminuirebbero del 5,9 per cento (o 53 centesimi l’ora), mentre l’occupazione al sud aumenterebbe di 12,85 punti percentuali. Complessivamente il monte salari nelle province meridionali aumenterebbe in media del 16,6 per cento, ovvero di 114 euro al mese.
A livello nazionale, stimiamo che l’occupazione aumenterebbe di 5,77 punti percentuali e i salari del 7,45 per cento. Ciò equivale a circa 600 euro all’anno in più per ogni adulto in età lavorativa. Il divario nord-sud nel reddito pro capite si ridurrebbe dal 28 per cento all’11 per cento.
I nostri risultati sono rilevanti anche per altri paesi. I sistemi italiano e tedesco non sono unici. Francia, Belgio, Portogallo, Finlandia, Islanda e Slovenia hanno modelli di contrattazione simili a quello italiano, mentre Austria, Danimarca, Paesi Bassi, Norvegia e Svezia sono più vicine al modello tedesco (Ocse 2017 e 2018). Grecia, Portogallo e Spagna si sono recentemente convertite da un sistema di contrattazione simile a quello italiano a un “decentramento controllato”, simile al modello tedesco. La Francia ha a lungo considerato un sistema di contrattazione maggiormente decentralizzato. Questa riforma era inizialmente contemplata come parte integrante delle riforme del mercato del lavoro proposte dal presidente Macron nel 2017, ma successivamente è stata abbandonata a causa della forte opposizione sindacale. Il nostro studio suggerisce che, contrariamente a opinioni diffuse, la riforma avrebbe aumentato il Pil, l’occupazione e i salari, riducendo al contempo le diseguaglianze di reddito.