I nemici dell’occidente
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L’origine della guerra totale dell’islam politico a libertà, mercato e secolarizzazione
Dettaglio della raffigurazione sopra una porta della madrasa di Shir Dor a Samarcanda, nell’odierno Uzbekistan
di Luciano Pellicani | 27 Marzo 2016 ore 06:00 Foglio
Quelli pubblicati qui sono stralci del libro “L’Occidente e i suoi nemici”, uscito per Rubbettino, scritto da Luciano Pellicani, sociologo, professore emerito alla Luiss Guido Carli ed editorialista del Foglio. E’ da ora in tutte le librerie.
La fine della guerra ideologica scatenata dai movimenti rivoluzionari di massa contro la civiltà liberale ha indotto il politologo Francis Fukuyama a proclamare, in un saggio che suscitò un vivace dibattito internazionale, che eravamo alla vigilia dell’“avvento della supremazia dello Spirito ipotizzata da Hegel” e alla “fine della storia”. La civiltà occidentale aveva vinto su tutti i fronti. Le sue idee, i suoi valori, le sue istituzioni erano destinati a imporsi dappertutto. Il comunismo aveva perso in modo definitivo la sfida che, a partire dalla conquista del Palazzo d’Inverno, aveva lanciato alle società liberali. (…) Sicché davanti ai popoli della Terra non c’era che una prospettiva: affidarsi al liberalismo economico e politico. Pertanto – concludeva Fukuyama –, con il collasso dell’Impero sovietico e la conseguente uscita di scena del mito della rivoluzione proletaria, la previsione fatta da Daniel Bell negli anni Cinquanta – la “fine delle ideologie” – era stata massicciamente corroborata: il mondo aveva cessato di essere un’arena militare nella quale si scontravano modelli di società alternativi e reciprocamente incompatibili e i valori e le istituzioni dell’Occidente si avviavano a diventare i valori e le istituzioni della umanità tutta quanta.
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Un siffatto programma costituisce una vera e propria reazione zelota del Sacro contro il processo di secolarizzazione. Infatti, i valori e le istituzioni della Modernità sono rifiutati in quanto basati su una concezione della vita priva di ogni riferimento alla Trascendenza. Non sorprende, pertanto, constatare che la costruzione ideologica degli islamisti si basa sulla contrapposizione tra la storia post-coranica e quella pre-islamica. Essa utilizza il concetto di jahiliyya – l’oscura ed empia epoca precedente la Rivelazione del Rasul Allah – per connotare come “pagani” i prodotti culturali dell’Occidente secolarizzato. A giudizio degli ideologi del fondamentalismo islamico, la crisi morale in cui versa l’umanità è la conseguenza logica e inevitabile del laicismo e del materialismo. Rifiutando la Rivelazione, l’Occidente ha imboccato la “via del Nulla” caratterizzata dal culto idolatrico della ragione e della materia. Ma, mentre i tradizionalisti si limitano a chiedere che i popoli del Dar al-Islam siano rispettosi dei principi della sacra tradizione (la salafiyya) e non si facciano contaminare dagli “impuri” costumi dei popoli che vivono sotto la tirannia del Grande Satana, i fondamentalisti vanno oltre: dichiarano senza mezzi termini che l’Islam deve uscire dalla sua posizione difensiva e deve militarizzarsi per conquistare e distruggere dalle fondamenta la “società senza Dio”, premessa indispensabile per “ripristinare il senso di Gemeinschaft”. (…)
E’ evidente che ci troviamo di fronte a un grido di guerra lanciato contro la civiltà moderna, rea di aver voltato le spalle a Dio e alla Rivelazione profetica; ed è altrettanto evidente che tale grido di guerra altro non è che la riproposizione di quello che fu il programma dei Fratelli Musulmani – l’associazione fondata nel 1928 dall’egiziano Hasan al-Banna, madre di tutti i fondamentalismi del mondo islamico –, fissato dal loro massimo teorico, Sayyid Qutb, in questi termini: “L’Islam è costretto alla lotta dall’obiettivo che è suo proprio, vale a dire la guida del genere umano. La guerra è un obbligo individuale, contro gli ostacoli alla predicazione, ma sotto la forma collettiva di un gruppo ristretto, organizzato e profondamente cementato. Gli avversari sono anch’essi degli individui, raggruppati in classi, in Stati, in coalizioni. Il Jihad, in reazione, è dunque assolutamente necessario in tutta la sua ampiezza. E un Jihad mondiale, permanente. Così essere musulmano, significa essere un guerriero, una comunità di guerrieri sinceri in permanenza, pronti ad essere utilizzati o no da Dio, se lo vuole e quando lo vuole, poiché lui solo è il capo della battaglia”.
Pertanto, non è sufficiente dire che l’obiettivo dei fondamentalisti è la re-islamizzazione delle società e degli Stati del Dar al-Islam; occorre anche sottolineare che il loro programma è assai più ambizioso e inquietante. Essi vogliono scatenare una vera e propria guerra di religione per conquistare il mondo intero e instaurare il dominio della Sharia – la Legge Sacra, eterna e immutabile – su tutta quanta l’umanità. In altre parole, essi, oltre a esigere la restaurazione del Dar al-Adl – la Casa della Giustizia, così come essa fu proclamata dal Profeta –, vogliono annientare la fonte dell’inquinamento della Umma: l’Occidente pagano in quanto secolarizzato. Di qui il doppio fronte nel quale oggi sono impegnati i fondamentalisti: contro i governi “apostati” che, pur proclamandosi musulmani, di fatto sono “corrotti e corruttori” in quanto “non osservano la Legge divina”; e contro quello che Osama bin Laden ha bollato come il Grande Miscredente: l’America, massima potenza del sistema di dominio imperialistico che essi vogliono radere al suolo. Quindi, la loro guerra santa – il Jihad – è al tempo stesso una guerra intestina – vale a dire una guerra fra musulmani “che ha per posta la definizione dell’Islam”; più precisamente, una guerra scatenata dai religiosi per strappare il potere ai militari – e una guerra internazionale condotta con l’unica arma di cui i mujahiddin – i combattenti della guerra santa, dominati dall’ardente desiderio di diventare “martiri della fede” (shuhada) – dispongono – il terrorismo globale – e con il dichiarato obbiettivo di distruggere il perverso “mondo degli infedeli”, da cui promanano i miasmi materialistici che stanno avvelenando la Umma.
Stando così le cose, si capisce perché il fondamentalismo islamico è stato definito il comunismo del XXI secolo, così come, a suo tempo, il comunismo era stato definito l’Islam del XX secolo. Non diversamente dal marxleninismo, il fondamentalismo islamico si presenta sulla scena come un movimento rivoluzionario animato dalla certezza di possedere un messaggio di salvezza a carattere ecumenico; e, non diversamente dal marxleninismo, ritiene di avere il dirittodovere di condurre una spietata guerra permanente contro l’Occidente. E si tratta, naturalmente, di una guerra totale, che deve essere condotta con tutti i mezzi e in tutte le sedi, fino al trionfo della Verità rivelata e alla instaurazione del Governo di Dio.
Certo, l’insorgenza dei movimenti fondamentalisti non significa punto che l’Islam in quanto tale abbia dichiarato guerra all’Occidente. Il fondamentalismo è una particolare interpretazione del Corano, la cui legittimità è contestata dagli stessi musulmani. Sta di fatto, però, che la visione del mondo fondamentalista – cioè quell’ideologia politica che divide il mondo in in-groups dell’Islam e in out-groups degli altri, percepiti come nemici da combattere sino al loro annientamento – si è largamente diffusa in tutto l’universo islamico. Accade così che i jihadisti – gli attivisti del Partito di Allah, pronti a sacrificare la loro vita pur di colpire gli agenti e i simboli del Grande Satana – costituiscono – grazie soprattutto all’ascesa dello Stato islamico (Isis) – una temibile forza, non solo perché sono determinati a usare i mezzi più spietati e subdoli per conseguire i propri scopi, ma anche perché esprimono l’intenso risentimento dei musulmani di fronte all’arrogante e imperialistica civiltà occidentale. Un risentimento le cui radici risalgono al tempo in cui i popoli del Dar al-Islam – che per oltre mille anni erano vissuti nella narcisistica convinzione che la loro civiltà costituiva la migliore forma di organizzazione sociale mai apparsa sulla Terra – furono costretti a prendere atto che – a motivo del fatto che l’Occidente aveva conseguito una superiorit. Materiale al tempo stesso umiliante e pericolosa – il mondo era diventato “il paradiso degli infedeli e l’inferno dei credenti”. La natura della sfida di fronte alla quale vennero a trovarsi i popoli musulmani, a partire dal momento in cui le potenze europee incominciarono a estendere i loro tentacoli sul Dar al-Islam, risulterà chiara una volta che si tenga presente che ciò che caratterizza in maniera forte la moderna civiltà occidentale non è solo la sua formidabile attrezzatura tecnologica che impone alle civiltà-altre di imboccare la via dell’“aggiornamento imitativo” onde evitare di essere assoggettate; è anche e soprattutto la formidabile potenza radioattiva della sua cultura spirituale, la quale non conosce limiti di sorta. La Modernità è una civiltà costitutivamente imperialistica, la cui istituzione centrale è il mercato. Il mercato, ex definitione, non ha frontiere: è un’istituzione a vocazione planetaria, che tende a sottoporre agli imperativi impersonali della logica catallattica tutto ciò che trova sul suo cammino – interessi, valori, credenze, istituzioni, tradizioni, pratiche consolidate, ecc. – e che procede come una smisurata valanga culturale che cresce su se stessa. E, in effetti, ovunque il capitalismo è penetrato, ha prodotto cataclismatici mutamenti che non hanno risparmiato nulla e nessuno. A motivo della sua “distruttiva creatività” e del suo irrefrenabile dinamismo auto-propulsivo, tutti i popoli della Terra sono stati forzosamente inglobati in un unico destino storico. Il risultato è stato che la civiltà occidentale ha preso ad assediare le culture-altre e le ha poste di fronte a una sfida di immani proporzioni, il cui contenuto essenziale è così riassumibile: o trovare una “risposta” adeguata oppure essere degradate al rango di colonie del Centro capitalistico.Un fenomeno del genere è una novità storica assoluta. (…) E’ per questo che l’aggressione culturale permanente è ciò che caratterizza i rapporti fra l’Occidente e l’Oriente ormai da secoli. E’ vero che è uscito di scena il colonialismo nella sua forma politico-militare; ma non è uscito di scena il colonialismo culturale, talché i popoli orientali, pur avendo conquistato la loro indipendenza, sono rimasti alle prese con una tremenda “sfida”. Essi si trovano di fronte a una cultura allogena che tende a sommergerli con il suo impressionante flusso di tecniche, di merci, di messaggi, di simboli e di valori; e ciò non può non alterare profondamente il loro tradizionale modo di vita e l’immagine che essi hanno di se stessi. E’ accaduto così che l’invasione culturale occidentale non si è limitata a fare scempio delle istituzioni, degli usi, dei valori che ha trovato sulla sua strada; ha anche straziato gli uomini, privandoli del loro habitat ancestrale e condannandoli a vivere in un mondo che si è progressivamente trasformato in una realtà estranea o addirittura ostile. Il capitalismo, aggredendo le società poste al di fuori della sua area di sviluppo endogeno, ha sradicato milioni di esseri umani, trasformandoli in una gigantesca massa alienata e, per ciò stesso, risentita. Questi milioni di individui – sparsi in tutte le aree culturali laddove il sistema di mercato si è presentato come una aggressiva e distruttiva potenza esogena – costituiscono, ormai da generazioni, il “proletariato esterno” della civiltà occidentale.
Accade così che, ancora oggi, due cose caratterizzano in maniera forte la condizione esistenziale dei popoli musulmani alle prese con quello che essi chiamano sadmat al-hadatha (il trauma della Modernità): il loro immenso senso di collera e di frustrazione e il fatto che vivono l’Occidente come una presenza al tempo stesso oppressiva e invadente. Oppressiva, per la sua schiacciante superiorità materiale; invadente, perché la Modernità costituisce una permanente minaccia per le tradizionali forme di vita del Dar al-Islam. Queste, per i musulmani, sono di origine divina e, come tali, non possono essere oggetto di analisi critica, né, tanto meno, possono essere modificate. La Sharia è la “via” che Dio, tramite il suo Profeta, ha aperto davanti agli uomini, i quali non possono deviare da essa senza commettere un inescusabile peccato. Nell’Islam, diritto e religione sono indistinguibili, talché la scienza giudica, essendo lo studio e la conoscenza della Legge Divina, è una scienza teologica. Il che fa del diritto musulmano un diritto sacro, indissolubilmente legato alla tradizione religiosa. E questa non è una componente o una dimensione della vita, che regola alcune questioni e dalla quale altre faccende sono escluse: è un sistema di norme che avvolge e plasma l’intera esistenza. La sua giurisdizione è totale; al limite, persino totalitaria. Nella religione coranica “il binomio Chiesa-Stato” non ha senso. Non esistono – e non possono esistere – due realtà distinguibili. Autorità religiosa e autorità politica sono la stessa cosa. Di qui l’ostinata resistenza opposta dalle società musulmane alla Modernità. Modernità, infatti, vuol dire, prima di tutto e soprattutto, “vita senza valori sacri” o, quantomeno, rigorosa separazione fra il regno della politica e il regno della religione. In modo tipico, lo Stato moderno è uno stato laico, cio. a dire uno Stato che, da una parte, non s’identifica con un particolare credo religioso e, dall’altra, riconosce la legittimità di tutte le religioni. Esso, pertanto, è l’esatto contrario dello Stato così come esso è sempre stato concepito nel Dar al-Islam: una istituzione avente l’ineludibile funzione di garantire il dominio impersonale della Legge Divina, dunque come l’espressione politica della stessa religione. Di qui la sentenza di Khomeyni: “L’Islam è politico o non è”. Una sentenza perfettamente in linea con la tradizione islamica, per la quale religione e Stato – din wa dawlah – sono un’unica realtà, sicché ogni tentativo di separare il potere temporale dal potere spirituale non pu. non essere considerato un empio allontanamento dalla Legge Divina, eterna e immutabile. E significa altresì che esiste una incompatibilità di principio fra la Sharia e la Modernità. Questa è inscindibile dal processo di secolarizzazione, il quale ha posto fine al legame organico fra lo Stato e la religione e ha trasformato quest’ultima in una faccenda privata. Ma una religione ridotta a una faccenda privata è precisamente ci. che i musulmani rigoristi non possono accettare, poiché essa implica l’abbandono della Sharia quale legge di Stato.
Non può destare sorpresa, pertanto, constatare che – con la sola eccezione della Repubblica turca, fondata da Kemal Ataturk su un completo laicismo – nei paesi del Dar al-Islam l’intellighenzia secolarizzata . una esigua minoranza, incapace di incanalare le masse verso la Modernità. Tanto più che la Modernità ha fatto intrusione nella vita dei popoli musulmani non solo come civiltà secolarizzata, centrata sulla ragione illuministica e sulla libertà individuale, ma anche come una potenza imperialistica, animata da una smisurata volontà di dominio e di sfruttamento. Di qui il fatto che il trauma dell’aggressione culturale occidentale ha provocato nel mondo islamico uno stato di crisi endemica.
Il carattere imperialistico della Modernità negli ultimi decenni è stato potentemente intensificato dal fenomeno della globalizzazione, cioè dal dilagare – a motivo dell’enorme riduzione dei costi dei trasporti e delle comunicazioni e dell’abbattimento delle barriere artificiali che impedivano la libera circolazione internazionale di beni, servizi, capitali, conoscenze e lavoratori – della logica catallattica; il che ha reso ancora pi. penetrante e minacciosa la pressione culturale dell’Occidente sui popoli del Dar al-Islam. In realtà, il fenomeno della globalizzazione non costituisce, propriamente parlando, una novità storica. Il capitalismo ha sempre avuto una vocazione planetaria, nel senso che la sua oggettiva logica di sviluppo tende a trasformare il mondo intero in un unico, smisurato Weltmarkt retto dalla impersonale legge della domanda e dell’offerta il cui irresistibile dinamismo fa sì che “ogni cosa sacra viene sconsacrata” (K. Marx, F. Engels). Accade così che lo spirito borghese – questo “micidiale nemico del sacro” (Berdjaev) – prende a corrodere le tradizionali basi spirituali dell’ordine sociale. Esso, ovunque penetra, genera il “disincanto del mondo” e, conseguentemente, la religione cessa di essere il regolatore unico della vita umana (individuale e collettiva). Una prospettiva che non può non essere giudicata empia da coloro che vivono nella fede e della fede. Di qui il fatto che la Modernità appare loro come il Grande Satana: tentatore e subdolo nemico dell’uomo e di Dio. E se oggi gli ideologi e gli attivisti del fondamentalismo islamico vedono crescere di giorno in giorno l’uditorio al quale essi si rivolgono, ci. accade perché alle spalle dei popoli del Dar al-Islam non ci sono che fallimenti lungo la via che avrebbe dovuto portare alla cancellazione – o, quanto meno, alla riduzione – del gap scientifico, tecnologico ed economico che li separava dalle società industriali. In particolare, il “socialismo arabo” è miseramente naufragato, lasciando così il campo libero alla predicazione di coloro che indicano nell’Occidente imperialistico e ateo la causa della crescente frustrazione nella quale si dibattono i popoli musulmani e che – quale rimedio alla loro umiliante condizione di “proletariato esterno” – invocano la restaurazione della Sacra Immutabile Tradizione, il rifiuto di tutto ciò che è in qualche modo connesso alla invadente Modernità e la mobilitazione permanente contro l’Occidente. Breve: i fondamentalisti intendono risolvere la penosa crisi d’identità nella quale si trovano i popoli musulmani, scatenando una guerra santa globale avente come obiettivo l’annientamento di quelle potenze che hanno trasformato il “mondo dei veri credenti” in un inferno.
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