Omaggio a un intellettuale che ci ha fatto molto incazzare, ma ci ha anche divertito
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Nella produzione di miti d’oggi in questo giornale Umberto Eco non è mai stato tra gli idoli o i segni d’avventura e di piacere, ma quando compì gli ottanta anni gli rendemmo un omaggio non fazioso che vale la pena ripetere alla notizia della sua morte
foto LaPresse
di Giuliano Ferrara | 21 Febbraio 2016
Di Umberto Eco (1932-2016) credo di aver capito come tanti il talento, la verve e perfino lo scrupolo o la tecnica dello studio sistematico e approfondito dei testi come fatti e dei fatti come testi (lascio da parte l’aggettivo scientifico, che mi sta antipatico); ma non ho mai capito o accettato che all’elogio di Franti (l’infame sorridente del libro Cuore) e alla fenomenologia di Mike Bongiorno fosse succeduta in carriera la denigrazione di Berlusconi, e per di più in nome di serali letture kantiane (anch’io faccio tardi la sera, ma per leggere Kant, diceva Eco dall’ambone). Ci ho visto anzi realizzata la parte più effimera del compianto studioso e del protagonista del pop italiano come di altre sante scorrettezze, il Professore e il Cavaliere, cioè: le barzellette. Ci ho visto il richiamo originario e vizioso del cattolicesimo goliardico parapadano, l’azionismo cattolico per l’uno e le zie suore per l’altro, che è capace di risucchiare gli sgorbi della libertà di tono, di cui i due furono campioni, nella misura di un compitino ben fatto. Ci ho visto la concorrenza tra Rai, l’azienda che Eco conquistò per concorso, e Mediaset, l’azienda che Berlusconi fondò per tigna: di chi è Mike Bongiorno? Chi ha inventato l’acqua calda?
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Al Nome della rosa preferisco Dumas padre, ma è un bel complimento e rispettoso il solo paragone, ne sono certo; le Bustine di Minerva e i brevi saggi mi seducevano, quasi sempre, quanto alla produzione semiologica, filosofica, metodologica, l’ho seguita con distrazione, la trovavo debole di costituzione anche quando estremamente pensosa e critica. Eco è archetipo dell’intellettuale di successo che si universalizza nel mondo attraverso la sua arte e la sua arte di vivere in società, un premio Oscar o un premio Nobel naturale, e così diventa un jet setter e un salonnier d’alta classe; ma la sua parte di luce se la prese con l’italianità nazional-popolare, sebbene moderna o contemporanea come si dice oggi, con una sana dose di provincialismo redento dall’alta cultura e dall’erudizione. Insegnando come si fa una tesi di laurea, istruendoci sulla dimensione ludica della comunicazione di massa, contaminando radioattivamente tutti gli alti e i bassi del mondo, Eco fu maschera vera e godibile della beata informalità di questo paese ridente e latino nonostante la sua ferocia. In un certo senso è vero che cambiò la cultura italiana, che fu una diga contro gli imbecilli, come prima di lui lo era stato Benedetto Croce nella sua maestà. E a un’assemblea di battaglia elettorale del fu Ulivo disse pensando alla candidatura del caro Lucio Colletti una battuta deliziosa: “Sono vecchi maoisti” questi nuovi berlusconiani.
Alla trama di culture e opere aperte degli anni Sessanta, in assenza di struttura e in presenza di avanguardia letteraria, si rimprovera malevolmente il peccato di sterilità: ne sono usciti pochi racconti e romanzi leggibili, si dice tra i detrattori, e nei testi critici, salvo Giorgio Manganelli e pochissimi altri, prevale l’orecchiamento parigino ed europeo. Va bene: nella produzione di miti d’oggi in questo giornale Eco non è mai stato tra gli idoli o i segni d’avventura e di piacere, ma quando compì gli ottanta anni gli rendemmo un omaggio non fazioso che vale la pena ripetere alla notizia della sua morte. Ci ha fatto molto incazzare, ma ci ha anche divertito, funzione suprema dell’intellettuale quando non canti il domani all’ombra del chiaro di luna.
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