E’ tutta colpa del liberismo. E ora ce lo infilano anche nel biberon
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La globalizzazione spiegata (meglio: demonizzata) alle medie. La pagina del libro
di Rosamaria Bitetti | 12 Dicembre 2015 ore 06:18 Foglio
In “Facciamo geografia” (Zanichelli), ecco come gli autori – Francesco Iarrera e Giorgio Pilotti – trattano il tema “Il lavoro nell’epoca della globalizzazione”. Se non c’è scritto “è tutta colpa del liberismo”, ci siamo vicini. Vi proponiamo una lettura alternativa dello stesso fenomeno.
Nel mondo ci sono immensi squilibri di ricchezza e di possibilità di lavoro: in molti paesi dittatoriali hanno limitato l’accesso alle risorse economiche e la libertà di trasformare la propria creatività e il proprio duro lavoro in ricchezza. La rivolta nota come primavera araba, per esempio, è scoppiata quando un venditore di frutta tunisino si è dato alle fiamme dopo che gli era stato espropriato dalla polizia il carrello con cui si guadagnava da vivere. In questi paesi, è impossibile fare piani di lungo periodo, e trasformare il proprio capitale in ricchezza. E’ difficile aprire imprese, creare innovazione, o svolgere professioni remunerative perché spesso queste sono riservate a chi è più vicino al potere politico. Per questi motivi, molti paesi sono poveri, e i loro abitanti vivono in condizioni difficilissime, fanno fatica a trovare un lavoro che permetta loro di sfamare ed educare i propri figli.
Con la globalizzazione, e con l’abbattimento dei costi di trasporto e di comunicazione dovuto alla tecnologia, è possibile che imprese originate in altri paesi possano operare anche lì. Tali imprese, che prendono quindi il nome di “multinazionali”, si trasferiscono in questi paesi proprio perché il costo del lavoro è più basso che in Europa o negli altri paesi sviluppati: questo dipende in parte dal fatto che, nella maggior parte dei paesi sviluppati, la regolamentazione del lavoro aumenta il costo di assumere un lavoratore. Ma dipende in gran parte dal fatto che, in quei paesi, i lavoratori hanno più bisogno di opportunità di crescita. Un salario di pochi dollari, che a noi sembra bassissimo, permette nei paesi poveri un radicale miglioramento delle condizioni di vita. Infatti il salario va calcolato non solo in dollari, ma in potere d’acquisto: in un paese dove si vive con un dollaro al giorno, ad esempio, guadagnare 20 centesimi all’ora, per 8 ore al giorno, significa triplicare il proprio potere d’acquisto. Questi lavoratori, poi, sono disposti a lavorare anche più di 8 ore, o a rinunciare alle ferie, proprio perché non hanno alternative migliori, e quel guadagno, che a noi sembra umiliante, è per loro l’occasione per offrire un presente e un futuro migliore ai loro figli. Noi possiamo scegliere se prendere un giorno di vacanza e lavorare qualche ora di meno, ma quando in gioco c’è la cena, i libri di scuola, le vaccinazioni, un orario di lavoro ridotto è un lusso che qualcuno non può permettersi, e che invece i paesi occidentali vogliono imporre con istituzioni come l’Organizzazione internazionale del lavoro.
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Non solo. Se in un paese povero arrivano più multinazionali, queste dovranno competere fra loro per i migliori lavoratori, e invece di 20 centesimi all’ora dovranno offrire stipendi sempre maggiori, anche perché nel frattempo hanno formato lavoratori con maggiori competenze. Le multinazionali non sono abbastanza, però, se non si risolve la situazione originale di accesso alle libertà economiche: solo quando un’economia è aperta, e le sue risorse non sono controllate dalla politica, ci può essere davvero crescita per tutti. Se succede questo, il salario offerto dalle multinazionali non sarà più sufficiente, e queste pagheranno di più i lavoratori più produttivi, o andranno da un’altra parte, innescando lo stesso circolo altrove. La globalizzazione è questo: un’opportunità per i lavoratori più poveri del mondo, di ricevere salari migliori, e per i clienti delle multinazionali di avere beni a costi inferiori. Si tratta di un’opportunità imperfetta, senza dubbio: ma è sicuramente migliore dell’alternativa.
Rosamaria Bitetti
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