Il rigurgito corporativo vuole chiudere la scuola in se stessa
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Preceduti da un intenso fuoco di ammorbidimento di manifestazioni “per salvare la scuola pubblica”, le confederazioni Cgil-Cisl-Uil e il sindacato autonomo Snals hanno presentato le richieste per il contratto nazionale, che riguarda un milione di persone tra docenti e non
di Renzo Rosati | 18 Novembre 2015 ore 06:15 Foglio
Roma. Preceduti da un intenso fuoco di ammorbidimento di manifestazioni “per salvare la scuola pubblica”, le confederazioni Cgil-Cisl-Uil e il sindacato autonomo Snals hanno presentato le richieste per il contratto nazionale, che riguarda un milione di persone tra docenti e non. Si parte da 220 euro mensili solo per recuperare i sei anni di blocco, oltre a un incremento delle buste paga non ancora precisato ma con la caratteristica di sempre: di essere a pioggia, senza riferimento al merito o alla produttività. D’altra parte chi dovrebbe stabilirlo questo merito? La piattaforma “apre” alle valutazioni degli insegnanti; ma ora che il governo ha messo nel freezer di #labuonascuola i poteri da assegnare ai presidi (il mitico “preside-sceriffo”), e da questi a salire nella scala gerarchica, i sindacati rilanciano chiedendo “organismi collegiali”, commissioni interne agli istituti, o esterni però del mondo scolastico e sulla base di “criteri nazionali”.
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Manca di specificare che criteri e commissari siano indicati dagli insegnanti stessi, o dai sindacati, ed ecco servita l’auto valutazione, eterna abitudine del pubblico impiego e di categorie ultracorporative come i magistrati. Ai sindacati della scuola il governo ha già concesso molto, prima con le imbarcate di precari poi depotenziando le responsabilità dei presidi (non che questi siano infallibili: vedere la vicenda della visita annullata alla mostra di Firenze di opere a soggetto religioso; a loro volta però i dirigenti scolastici dovrebbero essere giudicati, e anche rimossi, dai superiori locali e ministeriali), quindi erogando la card da 500 euro per “formazione”. Visto il varco, i sindacati cercano di allargarlo non solo cancellando la meritocrazia ma anche chiedendo una distinzione tra livello centrale e locale capovolta rispetto alle altre realtà lavorative: retribuzioni stabilite in modo egualitario dal contratto nazionale, e organici definiti nei singoli istituti e provveditorati. Un altro passo verso una scuola blindata in se stessa, dove lo stipendio non è legato al merito, il merito non ha a che fare con i risultati, gli organici con i conti pubblici, e tutto quanto con le necessità didattiche degli studenti e il loro inserimento nel mondo del lavoro. Si chiama “autonomia”. Già nella campagna-precari i sindacati avevano protestato contro le “deportazioni”, trovando media compiacenti e lamentosi, come se a spostarsi dovessero essere studenti e famiglie. Ora nella piattaforma c’è anche la richiesta che i precari che hanno rifiutato il trasferimento beneficino egualmente del bonus da 500 euro, a sottolineare la logica dell’“uguale per tutti”.
La scuola cerca così di allinearsi alla magistratura, che può essere giudicata solo da se stessa, dal Csm; e secondo i dati dell’Aic, Associazione italiana costituzionalisti, su circa 150 procedimenti esaminati l’anno meno di un terzo si conclude con minime sanzioni.
Egualmente la Sanità regionale risponde a governatori e burocrati che finora hanno fatto catenaccio contro i costi standard, per dire, tra Roma e le Marche, lamentandosi assai a ogni minimo non taglio, ma aumento ridotto. A loro volta i dirigenti Asl, assieme a direttori di ministero, dirigenti di prima e seconda fascia, alti ufficiali, professori universitari, fanno parte di quelle 249 mila “alte professionalità” del pubblico impiego anch’esse immuni da ogni valutazione. Una piaga che la riforma della Pubblica amministrazione continua a promettere di sanare; e anche se la scuola è un comparto a sé il principio del merito dovrebbe valere per tutti, visto poi che sull’altro piatto rimane l’illicenziabilità. Anzi. Magari questo contratto è la prova generale di ciò che attende il governo sul fronte più ampio dell’impiego pubblico. Magari a Palazzo Chigi e dintorni farebbero bene a buttarci un occhio.
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