Come è cambiato il bancario

La fine della stagione del gigantismo culturale ha ridisegnato la geografia delle banche italiane. Numeri, mutui e sfida tra due modelli di operatori. Con un problema: ma esiste ancora il naso?

Thomas Lawrence, “Il bancario”, 1820

di Marco Alfieri | 01 Ottobre 2015 ore 17:11 Foglio

Un banchiere di lungo corso la chiama la sindrome “del bambino e dell’acqua sporca”. In Italia siamo campioni di specialità. Le cose non vanno bene? Serve riformarle? Si butta via tutto, si fa un bel falò e si passa con eccesso di zelo al modello opposto, salvo poi pentirsene (di solito quando è troppo tardi). Con le banche è andata esattamente così. Invece di far evolvere un sistema eccessivamente frazionato e superare clientelismi, bancocentrismo e opacità, si è deciso di usare la leva del rating, delle fusioni e del gigantismo come bacchetta magica e panacea di ogni male, scimmiottando modelli altrui e buttando via il bambino con l’acqua sporca, appunto. Somma illusione.

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Prendiamo gli ultimi dati sul credito alle imprese (fonte Bankitalia). Li ha messi in fila in modo intelligente Fabio Bolognini sul suo blog finanziario: “Dal 2010 è calato di quasi 90 miliardi, ma nello stesso periodo le sofferenze sulle imprese sono passate da 59 a 138 miliardi. Il credito buono è calato in media del 2 per cento, quello cattivo aumentato del 21 per cento all’anno. Non occorrono commenti. La percentuale delle sofferenze sulle imprese è passata nello stesso periodo dal 6,6 per cento al 17,2 per cento…”.

Certo la lunga crisi ha pesato tanto ma non c’è solo questo. Nella storia delle banche quando i sistemi di rating non esistevano ancora, non si trova uno stillicidio di queste proporzioni così prolungato. “Perciò delle due l’una: il sistema di rating interno proposto con le metriche di Basilea e validati dalla Vigilanza non funziona oppure se funziona non è stato usato adeguatamente da chi doveva interpretarlo. Oppure ancora un misto delle due…”. In ogni caso visti i risultati, continua Bolognini, tanto valeva tenersi il “naso” dei vecchi direttori di filiale che almeno conoscevano il territorio. Considerando che l’Italia resta un paese di campanili, di artigianato minuto e di piccole medie imprese diffuse.

Se guardiamo dal basso, dalla prospettiva dei territori produttivi, l’evoluzione recente del nostro sistema bancario, la chiave di lettura proposta da Bolognini non è affatto campata in aria, anzi. Dobbiamo pensare che l’Italia per il 90 per cento è e resta provincia; osservarla da Roma, Milano e Francoforte o attraverso le lenti delle grandi istituzioni finanziarie spesso fa prendere cantonate. A cominciare dall’identikit dei clienti/correntisti e dalle operazioni tipiche che restano, nel 2015 come nel 1980, ancorate al binomio “raccolta-impieghi”.

Tradizionalmente i clienti delle banche nella provincia italiana sono giovani coppie con il mutuo da pagare o che abitano e lavorano in zona e appoggiano lo stipendio e le spese della casa, piccolo retail, artigiani e professionisti, pensionati con qualche soldo da parte, un buon bacino di aziende, famiglie consumatrici e alcuni clienti con grossi patrimoni che si fidano di un gestore specifico. In questo senso le migliaia di filiali sparse per il territorio sono state dagli anni del boom in avanti il presidio al centimetro dell’Italia dei campanili. Spesso gli istituti più piccoli, Popolari e Credito cooperativo, sono nati dalle collette promosse tra i contadini e gli artigiani dal parroco del paese e non c’è distretto industriale in cui i soci non siano diventati prima metalmezzadri e poi capitalisti molecolari, conservando il ruolo di incubatrici d’industrie vincenti. Ancora oggi se prendiamo le principali province manifatturiere italiane, da Vicenza ad Ancona, più del 60 per cento degli sportelli è appannaggio di banche di territorio.

In questo quadretto la figura del direttore di filiale è sempre stata strategica. Nel pantheon locale sedeva al tavolo delle #personechesannotuttoditutti a fianco del sindaco, del medico condotto, del farmacista e del maresciallo dei carabinieri. Conosceva letteralmente ogni pietra: sapeva leggere i bilanci (cosa che si è persa con il turnover forsennato di questi ultimi anni), fiutava le voci del paese dentro e fuori i bar, parlava con gli operai e prima di rientrare a casa la sera passava a visitare qualche capannone. Un po’ psicologo, un po’ gestore, un po’ consigliere, un po’ medico delle imprese.

Certo i tempi sono cambiati ma il segreto stava nella frequentazione del microcosmo. Ad esempio il metodo del Costantino Gava, per tanti anni direttore di filiale nel mitico nord-est, era infallibile. Lo ha raccontato qualche anno fa Massimo Malvestio in un bel libro sul “Credito cooperativo: storia di uomini, bisogni e successi in Veneto” (Marsilio). “Comincio con il calcio – spiega Gava –, vado a vedere tutte le partite che si giocano in paese. Prima squadra, giovanili, pulcini… non manco mai per un paio di mesi”. Poi le associazioni. Quelle degli anziani sono la vera passione di Gava, che non salta un torneo di scopa per nulla al mondo. Anche gli orari delle messe vengono passati al setaccio, “in modo da incrociare i mattinieri e i vespertini. Fino a prendere tre messe in una domenica…”.

Per molti puristi del credito si tratta di uno stile d’antan, forse romantico, certamente superato negli anni di Basilea e degli algoritmi. “In realtà se vai fuori e conosci la gente e le aziende, cose che in banca non si fanno quasi più, è difficile sbagliare…”. In teoria le due cose, tecnologia & prossimità, non si dovrebbero escludere a vicenda. In teoria.

In pratica per decenni il posto in banca è stato il sogno piccolo borghese di tantissime famiglie italiane. Posto fisso e buoni stipendi nell’Italia contadina entrata nel boom economico, quando un bancario poteva comprarsi una utilitaria o una lavatrice ultimo grido con il solo premio di produzione. Il massimo per chi sgobbava in fabbrica e vedeva nel salto impiegatizio dei figli la quintessenza dell’ascensore sociale. Ambizioni non di rado sbertucciate, simbolo di un’Italietta arricchita e conservatrice, da canzoni e film entrati nel costume nazionale. Dai Gufi di “Io vado in banca” (“stipendio fisso, così mi piazzo, e non se ne parla più”) al Venditti “sessantottino” di Compagni di scuola (“ti sei salvato o sei entrato in banca pure tu?”) fino al Nanni Moretti di “Sogni d’oro” che ironizza sul mestiere sicuro, senza preoccupazioni di bancario. In effetti. Rimborso vestiario, 16 mensilità, a casa presto, permessi orari e contratti integrativi che negli anni 80 valgono altri 3 mila euro.

La grande cesura arriva a metà anni Novanta quando cambia letteralmente il mestiere e lo scenario internazionale. Il big bang coincide con la stagione delle privatizzazioni post Iri, le fusioni e la fine del vecchio direttore di agenzia. Una volta aveva in mano la filiale e conosceva il territorio, oggi ruota ogni pochi anni, deve organizzare il lavoro degli addetti ma non ha più autonomia sulle erogazioni e conoscenza della clientela. Il ruolo si spersonalizza e la funzione si fa più burocratica, specie nelle filiali “small business” dove guida il rating (salvo eccezioni). “Dispiace non poterti dare i soldi, so che sei uno a posto, ma le regole sono ferree…”, è la risposta che molti direttori di filiale hanno cominciato a ripetere a macchinetta ad artigiani e piccoli imprenditori.

Nei nuovi modelli organizzativi le filiali vengono divise in segmenti: famiglie e aziende rispondono direttamente al capo area, che a sua volta riporta alla direzione generale. Non solo. Se una volta prevaleva la specializzazione, negli ultimi 15 anni la figura tipica è quella del bancario “proletarizzato” e universale, che esegue e piazza prodotti e polizze. Una sorta di impersonale catena di montaggio terziaria, fotografata tre anni fa da una ricerca Ispel sui lavoratori del credito: il 48 per cento degli intervistati si dichiarava insoddisfatto del proprio lavoro e il 25 per cento aveva la percezione di avere poche opportunità di crescita.

La crisi fa il resto e per molti versi è ancora cronaca battente, esacerbando sentimenti diffusi e avvelenando i pozzi. Quante volte abbiamo sentito imprenditori lamentarsi contro le banche brutte sporche e cattive che non prestano soldi, riducono i castelletti, tagliano fidi, non scontano le fatture in ritardo, alzano i tassi e chiedono rientri improvvisi?

Naturalmente il vecchio modello aveva molti difetti ed era giusto superarlo. Il microcosmo non è di per sé migliore delle fabbriche prodotto e della finanziarizzazione del credito. Il territorio piuttosto è come il colesterolo: c’è quello buono, attento all’originalità dello sviluppo locale e a selezionare le imprese, e quello cattivo, clientelare, politicizzato, incestuoso emerso nei tanti scandali da strapaese che hanno colpito in questi anni fondazioni, banche e banchette di territorio. O anche solo l’ingorda lottizzazione di poltrone, le erogazioni senza alcun merito creditizio agli amici degli amici e le opacità di gestione in un paese come l’Italia dove la mole dei prestiti bancari è pari alla cifra monstre del 53 per cento del pil (molto più di Francia e Germania) e rappresenta il 40 per cento delle passività finanziarie complessive (gli Usa sono al 15 per cento e la Francia al 23 per cento).

Ma detto questo, siamo sicuri che il modello in voga funzioni meglio? Siamo sicuri che andasse buttato il bambino con l’acqua sporca, sposando modelli distanti dalla propria geografia economico-produttiva? I numeri di prima direbbero il contrario, peraltro senza aver corretto i veri difetti del nostro sistema bancario: troppi sportelli, troppi dipendenti, bassa produttività e opacità di un pezzo importante di clientela rappresentata dai piccoli imprenditori, con i quali si guadagna poco e si rischia di perdere molto. Basti dire che su circa 2 milioni di imprese registrate (fonte Cerved) quasi la metà (900.000) non sono società di capitali, cioè esiste una totale commistione tra patrimonio della famiglia e patrimonio aziendale e tra debiti della persona e dell’azienda. Altre 450.000 imprese sono micro, non arrivano a 2 milioni di fatturato e troppo spesso presentano bilanci poco trasparenti e una situazione pessima di margini, flussi di cassa e debiti. Se aggiungiamo la fortissima dipendenza del paese dal credito bancario, il quadretto è fatto.

In Italia c’è stato un decennio, più o meno terminato con l’esplosione della crisi, in cui il gigantismo per il gigantismo, la logica della grande distribuzione e il miraggio dei banchieri star, hanno fagocitato i nostri territori. Banche popolari che scimmiottavano Intesa e Unicredit senza alcun bisogno, piccoli istituti lanciati alla conquista di nuovi sportelli & nuovi spazi di potere e banchieri di provincia che giocavano al risiko della finanza mentre il sistema d’impresa restava mediamente piccolo e locale. E badate: il gigantismo mal interpretato non è certo indifferente al business, perché spinge a misurarsi sui grandi numeri e sui grandi deal. Per una grande banca transnazionale perdere un cliente che fattura 5 milioni è irrilevante. Per le piccole invece questi profili sono sempre stati il pane quotidiano (senza la possibilità di compensare acquisendo aziende medio-grandi).

“Se prima della crisi il modello della banca universale, quella che fornisce servizi finanziari di svariato tipo, era visto come l’approccio vincente, soprattutto se accompagnato con una forte crescita dimensionale, oggi questo non è più vero. I recenti casi di Hsbc, Deutsche Bank e Credit Suisse, in cui il ricambio dei vertici prelude anche a drastici cambiamenti nelle scelte di business, sono solo alcuni esempi”, scrive su Lavoce.info l’economista del Centro Europa Ricerche (Cer), Carlo Milani.

Tuttavia, chiusa bruscamente la stagione del gigantismo (almeno culturale), resta l’incapacità delle nostre grandi banche di stare al passo coi tempi, recuperando il meglio della propria vocazione. Il sistema appare accerchiato da nuovi agguerritissimi operatori extra bancari, la cosiddetta rivoluzione FinTech (la fusione di finanza e tecnologia) che secondo molti oltreoceano spazzerà via l’industria del credito per come l’abbiamo conosciuta sulla base di cinque ingredienti che stanno già riscrivendo altri settori del nostro quotidiano, dalla mobilità alle vacanze, dagli acquisti alla musica, dalla televisione alle news: tecnologia, big data, condivisione, algoritmi e generazione millennials.

Paradossalmente proprio le banche di territorio potrebbero resistere meglio dei giganti del credito al boom delle piattaforme di prestito peer to peer, i vari Amazon Marketplace, Lending Club e i suoi fratelli/rivali Prosper, OnDeck o Funding Circle. Se si è in grado di aggiornarlo il presidio della vicinanza resta un valore, un po’ come la tenuta del negoziante evoluto rispetto ai centri commerciali.

Immaginate quando spazio potrebbe riconquistare una banca in cui le filiali diventano veri sportelli multiservizi, flessibili, tecnologici, dove il direttore gode (rispondendone, ovvio) di autonomia gestionale sul credito, i bancari sanno interpretare e incrociare i dati dei clienti del territorio, hanno stipendi meritocratici, frequentano la comunità locale e “visitano” davvero le aziende (invece che poltrire tra le carte dei back office). Bisognerebbe valutare i dipendenti dal tempo che trascorrono fuori dalle filiali, non viceversa, perché il territorio torna ad essere un valore pregiato.

“Il limite della finanza tecnologica è che non può (e non vuole) replicare i costosi meccanismi relazionali delle banche commerciali”, continua Bolognini, “ma diventa imbattibile se il servizio bancario rimane intrappolato nei limiti della scarsa trasparenza, della bassa professionalità del personale, della burocrazia delle procedure”. Ecco la grande occasione!

Peccato che in questi anni ad esempio “i big data sono all’ultimo posto tra i primi quindici investimenti in tecnologie dell’informazione e della comunicazione effettuati dalle banche italiane”, nota sempre Milani. Mentre a partire dal 2008 “gli investimenti in Ict degli istituti di credito sono diminuiti a un tasso medio annuo del 3,5 per cento”. Non esattamente il modo giusto per tenere testa ai colossi FinTech e ritrovare finalmente un vero spazio di mercato.

Ci sarebbe poi da introdurre un altro elemento che ha segnato la storia recente delle nostre banche: la differenza tra “credito”, dove la componente umana e qualitativa è fondamentale (lo abbiamo visto), e “finanza” dove tutto è standardizzato. Ma questo sarà oggetto di un secondo articolo.

Categoria Cultura

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