Esodati e deportati
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Quell’idea immobile di Italia che si nasconde dietro la lagna sui precari della scuola
di Renzo Rosati | 06 Settembre 2015 ore 06
Roma. “La lunga notte dei prof precari lascia una scia di lacrime, incredulità e in molti casi disperazione”. Cominciano così, sul Corriere della Sera, due pagine sulla nuova fase di assunzione di precari della scuola per un totale di 16.210 posti, fissi e fuori da ogni Jobs Act, offerti dallo stato a docenti che da anni si lamentano di non avere la cattedra. “Lacrime, incredulità e disperazione” descritti in via Solferino quale verità dominante sono in assonanza con la versione del Fatto quotidiano: “Notte di passione piena di storie di trasferimenti lunghi e sofferti”, e la sintesi: “La Buona scuola assume i tratti della deportazione di massa paventata da docenti e sindacati”. Eccola la nuova parola totem: i deportati. Che segue l’altra che ci allieta da mesi: gli esodati, cioè le vittime di stragi sempre di massa della riforma previdenziale firmata Elsa Fornero.
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Gli esodati, per i quali gli ultimi due governi hanno già prodotto sette decreti per un costo di oltre 10 miliardi di euro, sono stati tra i beniamini della passata stagione di talk show: adottati dalla sinistra, dai grillini e dalla Lega, e grimaldello per annacquare una delle leggi portanti del governo Monti. I deportati, vedrete, finiranno per azzerare quel poco di positivo della riforma scolastica, a cominciare dal principio che chi cerca lavoro va dove il lavoro c’è, e non viceversa, e pare debbano essere i precari a spostarsi dove mancano insegnanti, non le scuole e gli studenti a trasferirsi a domicilio dei docenti. Ma ecco che si preparano ricorsi, dai Tar al Consiglio di stato, e poi c’è sempre la Corte costituzionale. Hai voglia di dire che si parla di meno di 7 mila docenti, e solo metà dovranno cambiare regione, e poi avranno la possibilità del trasferimento e comunque un anno per “organizzarsi”. Poche migliaia su 160 mila nuovi assunti e blindati con la tutela dello stato, un’“imbarcata” per alcuni, una “regolarizzazione” per altri: comunque la sensazione – che sui giornaloni non ha diritto di cittadinanza – che la scuola serva non ad istruire e formare al lavoro gli studenti, quanto a essere fabbrica di posti, ammortizzatore sociale dai prof ai bidelli. Il diritto allo studio si trasforma in diritto all’insegnamento, vicino casa e nella materia decisa dai docenti stessi. Tutto ciò è chiamato autonomia e ha il fresco precedente nella ribellione degli insegnanti al proposito di attribuire ai presidi responsabilità come a qualsiasi dirigente del settore privato. Lì si è evocato un altro totem, il “preside sceriffo”.
La questione meridionale, vecchia maniera
Intanto si avanza, sempre ad uso dei talk show da sbarco, l’accoppiata deportati-questione meridionale, ed è sempre il Corriere ad anticiparla. Che, descritta la scia di lacrime e disperazione, torna sul rapporto Svimez di un mese fa, dal quale emersero dati sul Mezzogiorno da simil-Grecia, numeri peraltro appena confermati dall’Istat che nel rivedere al rialzo i decimali del pil e sul lavoro evidenzia il divario tra un Nord con una disoccupazione quasi tedesca (7,9 per cento) e un Meridione a livello doppio della media europea (20,2). Che c’entra la scuola? L’offerta di lavoro al nord ai precari del Sud dovrebbe costituire un piccolo sollievo, ma anche la conferma di un sistema scolastico sballato, che a sua volta smentisce la teoria della deportazione. Intanto il maggior numero di assunzioni è sì in Lombardia, seguita però dalla Campania; la Sicilia ne assumerà più del Veneto; la Puglia più del Piemonte e della Liguria. Eppure secondo la Contabilità nazionale dell’Istat in tutti gli ordini scolastici (asili, elementari, medie, licei) il tasso di affollamento è nettamente superiore al nord, con il sud sempre sotto la media nazionale. Mentre la quota di diplomati, indicatore standard a livello internazionali, è nel Meridione di nove punti inferiore alla media e di 20 rispetto a Lazio, Umbria e Trentino. Di simili ritardi il Corriere della Sera dà la colpa “alle mafie e all’illegalità”, suggerendo poi che lo stato investa in infrastrutture. Magari però un po’ di mobilità sociale, pardon di deportazione, potrebbe servire a cambiare mentalità. Ma c’è sempre l’altra ricetta: un piano straordinario di costruzione di scuole al sud, con pochi studenti e molti insegnanti a due passi da casa. Ci arriveremo.
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