Altrove il '68 è durato un anno. In Italia, invece, sopravvive da due generazioni

Il '68 è stata una salutare rivolta planetaria. Era, nella sua sostanza, un movimento culturale.

di Pierluigi Magnaschi  Italia Oggi 12.6.2015

Il '68 è stata una salutare rivolta planetaria. Era, nella sua sostanza, un movimento culturale. Espresso dai giovani, ce l'aveva con un mondo incartapecorito di adulti che non voleva capire di aver fatto (abbondantemente) il suo tempo. Il '68 quindi era una sorta di febbre adolescenziale dopo la quale un ragazzo si trova cresciuto di 5 centimetri e scopre di avere i peli in faccia. Ma se le febbri da crescita, anziché quattro, fossero mille, e anziché caratterizzare sei mesi della vita di una persona, durassero quarant'anni, il ragazzo, con esse, non diventerebbe un uomo ma finirebbe al cimitero. La stessa cosa è capitata in Italia con il suo '68.

Altrove, in tutti i paesi del mondo, questo movimento è durato un anno o poco più. Poi si è stabilizzato con altre regole e altre leadership. Si è stabilizzata persino la rivoluzione francese o quella bolscevica, immaginiamo se il '68 poteva rimanere a briglia sciolta per l'eternità. Da noi invece il '68 è ancora molto attivo, ben 47 anni dopo, in certi settori di attività (come certe aree del pubblico impiego e, in particolare, dell'insegnamento nelle aree metropolitane). Gli effetti si vedono, nitidamente, anche con la contestazione del ruolo dei dirigenti scolastici che successivamente chiamerò presidi, per comodità. I presidi, intendiamoci bene, ci sono già e ci sono sempre stati. Solo che adesso sono ridotti a burocrati anziché essere dei manager della formazione scolastica. Passano le carte, non promuovono un istituto scolastico. Ecco perché i contestatori del ruolo rinnovato dei presidi sono quegli insegnanti che non sopportano nessuna guida, che ritengono di essere l'alfa e l'omega della struttura formativa. Autonomi come nessuno, al mondo, lo è.

Ricordo, a questo proposito, che quando il famoso direttore d'orchestra Arturo Toscanini scomparve, i suoi orchestrali decisero, anche in omaggio a una figura di un maestro che essi consideravano insostituibile, di suonare senza. In fondo, pensavano senza dirlo, abbiamo suonato tante volte con Toscanini (guardando lo spartito, più che lui) che siamo benissimo in grado di suonare da soli. Andarono avanti senza un capo, per qualche mese ma poi si rassegnarono ad avere un nuovo maestro. Fecero questo perché erano dei professionisti (professionista è uno che si accorge dei suoi limiti rispetto ai compiti che si è dato) e non dei sessantottardi (e, men che meno, dei sessantottardi irranciditi).

La scuola italiana manca di tante cose. Ma soprattutto manca di dirigenti scolastici preparati, motivati e dotati di mezzi e strumenti per governare istituti alle volte enormi e che hanno sempre a che fare con delle persone, che sono sempre più complicate dei bulloni. Se non fossi sicuro di nuocere (notate a che punto siamo arrivati!) alla giovane preside che è stata alla base del rinascimento di un liceo classico milanese, parlerei di questo caso. Agendo, a suo rischio e pericolo, al limite del suo mandato, ha introdotto nuove discipline facoltative, ha aperto le porte al meglio della società civile lombarda, ha spinto i professori più anziani e autorevoli (ognuno dei quali era insediato ringhiosamente sull'isola della sua competenza) a parlare fra di loro, ha convinto i professori più feroci che si motivavano in base al numero di studenti che avevano sbaragliato, che il loro primo compito non era quello di sbaragliare gli allievi ma di recuperarli, motivarli, invogliarli. Il liceo, grazie alla preside, in soli due anni, ha raggiunto risultati eccezionali. E non solo al suo interno. Perché ha anche svegliato gli altri grandi licei milanesi che vivevano compiaciuti all'ombra del loro marchio, i quali, per evitare di essere scalzati nel loro prestigio, si sono anch'essi rimboccati le maniche. Il preside che conta introduce inevitabilmente, fra le scuole, la competizione. E la competizione (dovunque, non solo nella scuola) è come l'acqua che si muove. Se l'acqua ristagna, c'è solo la palude, la malaria, il ripiegamento, la rassegnazione, la povertà, il mugugno. E in quante scuole italiane l'acqua ristagna?

Qualche ragione però, coloro che non vogliono presidi dotati di maggiori poteri, ce l'hanno. Dicono: «Se diamo più poteri al preside-passacarte, quello cioè che troppo spesso abbiamo davanti, ci sarà il nepotismo, la lottizzazione, la burocrazia. Non sarà uno stimolo ma un freno». Ma molti presidi attuali sono stati selezionati proprio per essere mediocri esecutori delle disposizioni ministeriali e incolori passacarte. Li voleva così, non solo il ministero, ma anche, e soprattutto, i docenti sessantottardi e vetero-marxisti (meglio sarebbe dire pateticamente nichilisti) e i loro sindacati (spesso sono la stessa cosa) che vedevano in un preside dotato di poteri un antidoto al potere assembleare, dei vari collettivi, cioè di loro stessi, protagonisti dei parolifìci estenuanti, popolati da coloro che vogliono bloccare ogni innovazione e sforzo (che non sia di pura e inconcludente agitazione).

È proprio dando più potere ai presidi (e selezionandoli, d'ora innanzi, in base alle loro capacità culturali e organizzative, e chiamandoli, nel contempo, a rispondere della loro attività a un collegio a essi sovrastante) che si potrà rivitalizzare la scuola. Renderla cioè un'attività in sintonia con la società di oggi. Credo che abbia fotografato bene questo snodo un professore che, recentemente, su ItaliaOggi, ha scritto: «Mio bisnonno era insegnante. Se potesse rivivere e gli mostrassi i computer, gli iPhone e i tablet che uso in ufficio, resterebbe sbalordito. Ma se lo portassi nella mia classe si sentirebbe a suo agio perché è tutto come ai suoi tempi, l'Ottocento».

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