Come se la lingua fosse responsabile delle disparità

I nomi declinati al femminile finiscono per negare la parità, il singolare “paradosso rosa.L’obiettivo è affermare l’uguaglianza tra uomo e donna? Ma così si accentuano le differenze di ordine sessuale

25.9.2024 Patrizia Torricelli, ilriformista.it lettura3’

I nomi declinati al femminile finiscono per negare la parità, il singolare “paradosso rosa”

“E tu chi sei?”, domandò il Bruco. Intimidita, Alice rispose: “Io a questo punto quasi non lo so più, signore – o meglio, so chi ero stamattina quando mi sono alzata, ma da allora credo di essere cambiata più di una volta”. “Che cosa mi vai contando?”, disse austeramente il Bruco. Nel mondo fantastico di Alice è facile confondersi e perdere le coordinate dello spazio, del tempo e di sé stessi, seguendo il filo del nonsenso. Nel mondo terreno, quello di sopra e reale, dove è la ragione a tener le fila di ciò che si vede e che si dice, le cose dovrebbero essere meno ingarbugliate. E le storie di sé filar lisce per via del soccorso intelligente che cultura e conoscenza prestano a chi le racconta.

Niente di più semplice, allora, nel mondo a occhi aperti, che rispondere alla stessa domanda: “E tu chi sei?”. Eppure, Alice ancora non lo sa. “Sono una donna! Sono una madre!”, declamava con foga la Meloni. “Non sono una madre! Ma non per questo sono meno donna!”, replicava con veemenza la Schlein. “Dove finisce il privato e dove comincia il pubblico?”, si chiede chi le ascolta. In cosa la politica, fatta da chi è donna, è diversa della politica fatta da chi è uomo? Oltretutto la politica ha già un nome di genere grammaticale femminile. Forse predilige le donne. O forse è declinata al femminile per tentare gli uomini, come una moderna Circe? Chissà. Bisognerebbe chiedere al Cappellaio Matto o alla Lepre Marzolina. Ma, ormai, Alice è uscita dalla tana del coniglio e – tornata a grandezza naturale – non può più discutere con loro.

“Non sono un sindaco! Sono una sindaca!”, gridano le femministe che occupano tale carica. Ignorando che la carica non è né maschio né femmina, ma solo un’innocua parola, che la grammatica declina secondo le sue regole, antiche come il tempo, che servono soltanto a imprimere nella mente un vocabolario con cui giostrare i significati. Ma conta il sesso per fare il sindaco? E per fare l’avvocato? O valgono altre qualità che non sono prerogativa esclusiva né dei maschi né delle femmine in quanto tali? E perché il farmacista non dovrebbe risentirsi di essere chiamato così, se è un uomo? Mentre chi ha altri profili sessuali – ammesso che alla società interessi saperlo – quale denominazione dovrebbe pretendere di ricevere per dichiararlo pubblicamente? Poi, una volta risolto il dilemma e collocato socialmente in una categoria tutta sua, come riuscirebbe a non sentirsi, per via della separazione da tutti gli altri, discriminato?

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E, soprattutto, perché accentuare le differenze di ordine sessuale se, poi, si vuole affermare l’eguaglianza fra i sessi? Perché, insomma, sottolineare lessicalmente una differenza che si vuole, invece, a tutti i costi negare? Singolare paradosso che, forse, tale non sembra solo se si cade nella tana d’un coniglio e ci si addentra in un mondo capovolto, un universo favoloso fatto di meraviglie che solo lì possono esistere.

Alcune donne dichiarano pubblicamente di voler mantenere, per la carica ricoperta, la denominazione maschile tradizionale (come ha appena fatto il neo-procuratore di Torino Lucia Must e prima Beatrice Venezi) con disappunto da parte delle femministe più impegnate su tale versante. Ma verrebbe da chiedere a queste ultime se davvero pensano che basti accontentarsi di un nome declinato al femminile per essere certe di aver imboccato la strada giusta verso la parità. O se, invece, questo non sia solo un espediente – innocente o malizioso – per negarla, la parità, tacitando chi la rivendica con la concessione di un orpello da appuntarsi addosso. E se l’apparente atto di riguardo verso le donne non nasconda un’insidia sociale che autorizza la coscienza civile a dimenticare la mancanza storica di parità fra uomini e donne delegandola alla lingua. Quasi fosse la lingua a esser responsabile dell’esistenza di tale disparità e non piuttosto una tradizione culturale che, per un proprio difetto d’elaborazione, non sa ancora concedere a ogni persona – e senza distinzioni di sorta – la prerogativa di essere felicemente sé stessa restando eguale a tutti gli altri in termini di diritti e doveri sociali, senza bisogno di inventarsi parole artefatte per dire chi si è e per essere apprezzati.

Patrizia Torricelli

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