Tra Giuliano e SangiulianoIl neo ministro Giuli, e l’egemonia culturale del Foglio di Ferrara

Dopo Buttafuoco (Biennale), Benini (Salone del Libro) e Stocchi (Maxxi), il governo in difficoltà pesca ancora una volta dal giornale dell’Elefantino, dimostrando di non avere una classe dirigente propria

7.9.2024 Mario Lavia, linkiesta.it lettura2’

«Ben scavato vecchia talpa», marxianamente Giuliano Ferrara ieri gongolava, e con ragione: la fucina del suo Foglio pare diventata l’accademia della nuova classe dirigente, almeno di quella parte che ha l’obbligo di stare a tavola usando le posate d’argento con lo stile necessario. E dunque ecco Alessandro Giuli nuovo ministro della Cultura: se le cose dovessero continuare così diventerà una specie di Giuliano Amato, una riserva della Repubblica meloniana, se c’è un problema si chiama lui, e qui il problema c’era e bello grosso, chi mettere al posto dello sventurato (che come la Monaca di Monza “rispose”) Gennaro Sangiuliano, ’o ministro ’nnammurato, come ha scritto qualcuno.

La sagace premier ci ha messo tre giorni per capire che era meglio se si levava di torno, chissà cosa pensava di fare, lei con l’amico Gian Marco Chiocci che ha realizzato una delle più grottesche interviste della storia della tv pubblica. Tanto c’era Giuli pronto, perché aspettare? Figlio del Foglio, come Pietrangelo Buttafuoco, già scelto per la Biennale di Venezia, come prima Annalena Benini al Salone di Torino nella capitale del liberalismo democratico e della Resistenza. E a Roma, dove non mancano le terrazze, anche se più sbracate di una volta, Giuli si era installato al Maxxi, gioiellino melandriano e dunque della sinistra rutelliana, diciamo così per non confonderlo con le salsicce comuniste delle Feste dell’Unità, e da lì ha lanciato con il suo stile vagamente apollineo tante liane verso i dirimpettai della sinistra, attitudine peraltro coltivata dai tempi in cui l’ex deputato del Pd Andrea Romano, allora direttore della saggistica di Einaudi (Einaudi!), gli chiese di scrivere un libro e lui fece “Il passo delle oche” in cui distruggeva Gianfranco Fini.

Al MaXXI il neoministro non ha fatto male, anzi, anche grazie al suo direttore generale Francesco Stocchi che non a caso dirige sul Foglio, sempre lui, un inserto sull’arte. Negli anni, Giuli sul giornale dell’Elefantino, nel crogiuolo tra berlusconismo, dalemismo, renzismo e quant’altro, ci ha dato dentro con articoli e analisi, fino a diventarne condirettore, contribuendo a alimentare quella serra ferrariana dalla quale oggi si rifornisce una classe politica di governo dove la cultura non sta di casa.

E dunque, per costruire un simulacro di egemonia, questi al governo devono rivolgersi fuori dagli ambienti di Colle Oppio e di San Babila, si crogiolano con Tolkien e Marinetti, ed è meglio di niente ma non basta assolutamente, credono che in Gramsci ci sia la ricetta per l’egemonia ma non è così, lo stesso Giuli ha cercato di spiegarglielo con l’ultimo suo libro, “Gramsci è vivo”, nel quale in realtà sfidava i suoi sodali politici a emanciparsi, a «guardare negli occhi la sinistra» anche con un certo grado di umiltà intellettuale, ma chissà quelli che ci hanno capito.

E dunque i meloniani sono costretti a uscire dai loro bunker costruiti con granitiche certezze di cent’anni fa e andare a cercare nei luoghi “altri” dove si fa davvero mescolanza di culture, e in questo senso il Foglio è oggettivamente un bel supermarket di idee e sui suoi scaffali si trovano molte cose e utilissime, a saperle usare.

Questa destra meloniana vuole costruire un nuovo edificio culturale, ma per farlo deve prendere i mattoni e usare la calce – non diciamo dal cantiere della sinistra ma da chi è in qualche modo imbozzolato in quella vicenda –, deve chinarsi su una spiaggia che non è la sua per raccogliere le telline della cultura, e non è detto che poi sappiamo cucinarle.

Commenti   

#1 walter 2024-09-07 18:19
Storie e vite e le carriere di tanti giornalisti in aiuto ai Governi. Storie e vite
“Mario Lavia da notista politico, il foglio, a vice direttore di ‘Europa’

La politica italiana è una delle sue più grandi passioni. È stata la sua culla, è diventata il suo lavoro. Mario Lavia (accento sulla i, mi raccomando), nato a Roma il 2 maggio 1961, ha mosso i primi passi nel mai troppo rimpianto Partito comunista italiano. Responsabile della cultura nella segreteria nazionale della Federazione giovanile di Botteghe Oscure (segretario era Pietro Folena e tra gli altri compagnucci figuravano Nichi Vendola e Franco Giordano), Lavia si scoccia presto della militanza politica e a metà dei suoi vent’anni decide di optare per quella giornalistica entrando nella redazione del giornale radio di Area e cominciando a occuparsi di politica interna. Nel 1992 diventa professionista e dà l’addio ad Area per passare a Italia Radio, emittente di una delle mutazioni dei postcomunisti, il Pds. Resiste due anni e poi, nel 1996, trasmigra a Dire, l’agenzia di stampa (sempre di tendenza postcomunista) che all’epoca si occupava solo di cronaca parlamentare. Ed è lì che Lavia diventa appunto giornalista parlamentare, frequentando giorno e notte i palazzi del potere romano. A Dire ci resta ben nove anni, fino a quando cioè Stefano Menichini lo chiama a Europa dove continua a occuparsi di politica interna e soprattutto di centrosinistra, di cui è riconosciuto essere uno dei massimi esperti.
Gusti: il jazz degli anni Cinquanta e Marcel Proust (ha anche scritto un libro, ‘Marcel Proust e la politica’).
Disgusti: i cinepanettoni.
L’articolo è sul mensile ‘Prima Comunicazione’ n. 405 – aprile 2010 Roberto Borghi

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