1. ‘’HOLLYWOOD REPORTER”: ''ROMA SANTA E DANNATA’’ È OPERA PARTICOLARE E POTENTISSIMA. UN FILM D’AMORE, ROMANTICO
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E SPIETATO SULLA CITTÀ ETERNA, MA SEMPRE MERAVIGLIOSAMENTE STRONZA. CHE STASERA 23.30 TERREMOTERÀ GLI SPETTATORI SU RAI2"
16.2.2024 dagospia.com lettura8’
2. BORIS SOLLAZZO INTERVISTA DAGO: “ROMA È UNA CITTÀ COME LA SEDIA ELETTRICA È UNA SEDIA…UNISCE LA CITTA' DI DIO E LA DOLCE VITA, GERUSALEMME E BABELE, IL DIAVOLO E L'ACQUA SANTA, IL MALE E IL BENE. ''CAPUT MONDI E CHIAVICA DER MONNO'' PERCHÉ SI FONDA SUI CARDINI DELLA CRISTIANITÀ: CONFESSIONE, PERDONO E ASSOLUZIONE. SANTA E DANNATA”
3. "I ROMANI NON HANNO MAI CONFUSO LA CRONACA CON LA STORIA, PERCHE' ROMA NON È MAI STATA UNA CITTÀ, MA UNA CIVILTÀ. UNA PERNACCHIA E TUTTO PASSA. MA IL COLOSSEO RESTA"
DAGO ALLA VITA IN DIRETTA PRESENTA ROMA, SANTA E DANNATA
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DI BORIS SOLLAZZO https://www.hollywoodreporter.it/film/documentari/roma-santa-e-dannata-recensione-intervista-dagospia-roberto-d-agostino/88396/
Non lo diresti mai, di Roberto D’Agostino, fustigatore del potere più o meno cafone dallo scranno del suo Dagospia, giudice impietoso di una città, di un paese, della superitalianità. Non lo diresti neanche di Roma, santa e dannata, opera particolare e potentissima. No, non diresti mai del primo che è l’ultimo dei romantici e del secondo che è un film d’amore.
Ma è così. Roma, santa e dannata, in onda su RaiDue alle 23.25 del 16 febbraio 2024 e già passato all’ultima Festa del Cinema di Roma, è il modo di Roberto D’Agostino, affiancato da Marco Giusti, di riprendere e riprendersi una città che “in troppi hanno raccontato, non restituendola nella sua verità e realtà.
Da La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino a Roma di Federico Fellini, questa città – ci racconta il mitico Dago – viene sempre raccontata da stranieri, da chi viene da Rimini o da Napoli, dai provinciali. E ce la restituiscono deformata.
Ecco perché ho voluto mettere la scena di Roma con Anna Magnani in cui Federico Fellini prima la lusinga con tanti cliché e poi le chiede se può fare una domanda. E lei risponde “No, non mi fido”. Ecco lei in quel momento è Roma, che non ha fiducia di chi la racconta da lontano. È la risposta della romana al barbaro, allo straniero, è il suo elegante: non me sta a pija per culo”.
Non gli piace la definizione, ma di Roma D’Agostino è un amante quasi geloso, un innamorato disposto, anzi capace di comprenderne, desiderarne anche le debolezze e le fragilità. “La verità è che ancora oggi, che ho girato il mondo, sa emozionarmi. Roma non è una città, va oltre l’assembramento di palazzi, vie, piazze, municipi, monumenti, Roma è la pietra fondante e miliare di tutta la civiltà occidentale, dalla dottrina alla politica passando per l’arte
LA PRIMA A MILANO DI ROMA SANTA E DANNATA DI DAGO E MARCO GIUSTI
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Non la puoi liquidare come una città e basta, è definita Città Eterna ma nessuno si chiede mai perché. Perché Roma c’è sempre, non ha bisogno di mode e movimenti, di essere la New York culla di un certo cinema che ne costruisce e scolpisce l’immaginario, di essere una Swinging London, o di essere la Parigi che in un certo momento attrae tutti gli artisti più in voga. E così Berlino negli ultimi anni: prima o poi quello spirito del tempo, quello zeitgeist che le rende centrali, abbandona quelle capitali”.
Non è così per lei. “Roma è lo shock di Stendhal e Goethe di fronte al Colosseo, il nostro a Villa Adriana o di fronte ai capolavori di Michelangelo, il loro, il nostro capire che ciò che hanno davanti è più vivo di loro e di noi e sopravviverà a tutto e tutti. Roma è eterna, tu passerai. E questo è immediatamente evidente al forestiero, al burino, al cafone che arriva e sa di essere già morto di fronte a lei.
E non mi dire che vale anche per Atene, Luxor o Il Cairo, che sono città morte: il cinismo romano nasce da qui, i romani non hanno mai confuso la cronaca con la Storia, Roma non è mai stata una città, ma una civiltà. E da qui arriva il secondo shock, che hanno provato tutti, da Barack Obama in giù: che nessuno se li incula, nulla è più importante del posto in cui stanno”.
E a raccontarlo è proprio Carlo Verdone, quando Marco Giusti gli chiede se a Roma i miti non esistono. “E Carlo gli risponde: no, perché poi parte subito la pernacchia. Non è nichilismo, ma senso dell’effimero. Altrui”.
E quindi è Roma l’oggetto del desiderio, lei non deve desiderare, solo essere desiderata. Tutti, da Massimo Ceccherini, ora vicino all’Oscar e allora alla deriva, a Vera Gemma, la amano, ne vengono consumati, la vivono fino quasi a morirne. “Qui dicono, indignati, Roma ha perso l’Expo, Roma ha perso le Olimpiadi. Ma questa è la patria di Giulio Cesare, ma cosa cazzo ce ne frega di queste cose, sono solo una scocciatura. Lasciamole a chi deve ancora definirsi, esistere. Altrove passato il loro tempo, si diventa un giro di musei, Roma è rimasta Roma, sempre”.
La recensione del film di Roberto D’Agostino e Marco Giusti
Roma, Santa e Dannata è anche una serie di scelte, di inquadrature, di note, di parole, di testimoni, di racconti e locali che la raccontano principalmente nelle sue notti, nel suo sottobosco “che esiste ancora, basta che non si sappia in giro e non esca sui giornali”. La scelta forse più bella e Mamma Roma Addio di Remo Remotti rivista (e ancora più) scorretta da Cranio Randagio.
Cantori e vittime, emarginati e ribelli, di questa città. “Quanto l’ho amato Cranio Randagio, un grande artista. Così come Remo Remotti pieno di talento e coraggio., Due outcast che conoscono Roma, da romani, non come chi l’ha raccontata al cinema. Quelli forse hanno imparato a riconoscere Roma, ma non la romanità, non sanno cosa voglia dire essere romani.
Noi partiamo dal Vaticano, da quel potere immenso che le dà l’essere il ponte tra la Terra a Dio. E a 100 metri da San Pietro che fa proprio il Vaticano? Affitta il Cinema Castello al Mucca Assassina, e quello diventa il luogo del peccato, il più trasgressivo di Roma. C’è qualcosa che dimostra più di così l’essere oltre ogni visione ideologica di questa città?
Il bene e il male, qui, sono le due facce della stessa vestaglia, della stessa medaglia. La protervia e la presunzione di chi pretende di separarli si scontra contro una città che sa che tutto contiene entrambi. Questa è una Babele che unisce diavolo e acqua santa, mette insieme, come diceva Gioacchino Belli l’essere caput mondi e chiavica der monno, la Capitale è un’ermafrodita che ha due facce nello stesso corpo. E si può vivere tutto qui, perché questa città si fonda sui cardini della cristianità: assoluzione, perdono e confessione. Santa e Dannata, appunto”.
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E anche Roberto D’Agostino sembra santo e dannato, anzi santone e dannato, con tanto di barba chilometrica e ieratica capacità di predicare il verbo tronco della romanità. “Ma siamo tutti dannati. Ti racconto di quando ho conosciuto Gore Vidal, che viveva a Piazza Argentina, e gli chiesi perché non aveva scelto i postriboli di Los Angeles o di Londra e vivesse qui. Lui serenamente mi disse: “perché a Roma si scopa”.
Ninetto Davoli addosso a Pasolini altrove avrebbe richiamato le forze dell’ordine, Roma ti concede invece il piacere e la bellezza del peccato, non ti giudica. Anzi, lo fa, ferocemente, ma non ti impedisce nulla. D’altronde ovunque la fluidità è rivoluzione e conquista, qui dai tempi di imperatori e condottieri bisessuali, dai costumi sessuali liberi sotto l’Impero, sono sempre stati la normalità. Roma era un bordello in cui tutti erano felici. Roma non si stupisce di nulla, Roma ti permette tutto. E anticipa, tutto”.
Le pazze immagini (e storie) di Roma, Santa e Dannata
Come con uno dei racconti e delle immagini più pazze del documentario, il Festival della Poesia di Castel Porziano del 30 giugno 1979: parole di Carlo Verdone, immagini rovinate ed evocative, irresistibili, trovate chissà dove. “C’erano, da Gregory Corso a William Borroughs, da Allen Ginsberg a Fernanda Pivano tutta la beat generation, mancava Jack Kerouac, ma solo perché era ubriaco lercio in albergo.
Fu una Woodstock, ora un festival della poesia attirerebbe poche decine di persone, là ce n’erano migliaia. Ma non erano venuti per loro o per Dario Bellezza, Dacia Maraini, Ignazio Buttitta o chissà chi altro. No, volevano leggere la loro poesia. Quel momento ci ha raccontato cosa sarebbero diventati gli anni ’80, quelli che in un libro Tom Wolfe avrebbe definito il decennio dell’Io”. Lo stesso Tom Wolfe che ha inventato, in onore della coppia Bernstein-Montealegre che con party vip sostenevano le Pantere nere, l’espressione radical chic.
Ma questo varrebbe un altro film. Sempre di Dago, ovvio.
Tornando alla Roma nascosta ed esposta nel suo film, una parte importante, da Luxuria a Ceccherini, ce l’ha il Degrado, “quel locale che ebbe una doppia intuizione, spazzare via l’ipocrisia di una pista da ballo a favore di dark room, e l’uso del buio per superare ogni limite, assaggiare i corpi altrui senza vederli e così non sapevi di chi era la mano, il cazzo o il culo che avevi addosso.
Roma è il luogo in cui tutti, anche gli intellettuali più raffinati, si sono divertiti oltre l’immaginabile, ma è anche in cui Massimo Ceccherini poteva offrire il suo telefono a una prostituta africana per chiamare a casa. Roma, pagana e cattolica, non mette all’indice l’emarginato o quello che altri chiamano diverso, ma lo accoglie. Ruvida, senza smancerie, lo accoglie nella sua Babele di lingue, emozioni e corpi.
Uno dei momenti che più amo del film è quello dei fascisti che irrompono nello spettacolo del Living Theatre e il corto circuito tra la loro violenza e la nudità dei corpi che li attrae inevitabilmente e annulla la violenza promessa e desiderata. Perché il corpo è amore e quell’incontro con l’odio è una delle cose più potenti e attuali del film. Quel racconto ti dice che tutti diventano romani quando arrivano qui, perché nessuno ti dà la libertà che ti regala Roma. Roma quasi la pretende”.
Roma, caput mundi. E capitale del Potere
La stessa libertà che esercita e a volte impugnano brutalmente Dago e Dagospia, la stessa che si respira in un lavoro cinematografico che è raffinato e pop, ironico e poetico, romano e internazionale. Che in seconda serata su Rai2 terremoterà e accoglierà gli spettatori. Perché per raccontare la Capitale del Potere, devi capirla, viverla, sentirla addosso.
“Il simbolo di Roma, ahinoi devastata nel nostro immaginario dal fascismo che l’ha reso grottesco è inservibile, è il fascio, l’unione delle debolezze che diventa forza. E chi non lo capisce, si brucia, come i tanti lanzichenecchi scesi a conquistare Roma dall’alto di socialismi, leghismi, 5stellismi. Tutti, o quasi, scivolano quasi sempre sulla stessa buccia. La buccia della fregna.
E della villa e della piscina, perché pensano che quello sia il potere, E invece il potere è sapere che tu potrai contare su di me e viceversa, l’affidabilità di chi hai fronte. Altrimenti fai la fine dei Renzi, dei Salvini e dei Conte: cinque minuti di fuochi d’artificio e poi tornano quello che sono. Dagospia in fondo è l’osservatorio sulla Roma di sotto, qualcosa che nessuno fa.
Tornando a quella forma di Potere, molto, direi tutto romano, non è mai raccontato nella sua essenza, pensa a Il Divo: come si fa a fare un film su Giulio Andreotti senza parlare di Vaticano e Massoneria? E poi ricorda sempre: Roma non è Italia, è Roma. È papalina e non ha mai riconosciuto l’Unita d’Italia, è ancora umiliata dalla breccia di Porta Pia”.
Ed è per questo che Roma la devi raccontare con l’aneddoto di un Papa che non riesce a rientrare in Vaticano dopo una birra in incognito ma anche con gli stravizi dei suoi locali più estremi, con la voce di Carlo Verdone e dalla terrazza dell’Hotel Raphael, che della Roma potente e un po’ mafiosa, eterna e cinica, è il simbolo moderno, di quel Bettino che altri non era che un Benito rivisto e corretto e delle monetine lanciate da un popolo che ama la pernacchia e autoassolversi.
Roma, Santa e Dannata. E sempre meravigliosamente stronza.