FACCE DISPARI Jorge Coulón: “Suoniamo per ridare coraggio all'Europa”
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Chitarrista degli Inti-Illimani, in Italia per presentare il disco "Agua". "Siamo stati un gruppo musicale e non di propaganda. All'Europa manca il cuore e il coraggio"
FRANCESCO PALMIERI 29 APR 2023 ilfoglio.it lettura3’
Il destino stabilì che l’11 settembre 1973 Jorge Coulón Larrañaga si trovasse con i suoi musicisti a visitare la Cupola di San Pietro anziché a Santiago del Cile, mentre Salvador Allende soccombeva nel golpe di Pinochet. Cominciò quel giorno il lungo esilio degli Inti-Illimani, che in Italia sono tuttora icona di un’epoca malgrado nuovi progetti abbiano prevalso sulla nostalgia durante la loro lunghissima carriera. Jorge è appena tornato a Roma col gruppo per presentare il disco “Agua”, realizzato con il cantautore fiorentino Giulio Wilson (di cui già eseguirono “Vale la pena”), che andrà in concerto per l’Italia dal 12 al 26 maggio. Prima tappa Genova. Un’opera dedicata alle responsabilità dell’uomo nella difesa dell’ambiente, germinata tra Italia e Cile durante il lockdown della pandemia, mentre si ricalibravano i rapporti con la natura “e nei quartieri alti di Santiago”, racconta Jorge, “riapparivano persino i puma scesi dalla Cordigliera”.
Qual è il messaggio?
Riorganizzare la società in modo diverso, perché stiamo andando verso il disastro. “Agua” mira a stimolare la nostra coscienza come abitanti del Pianeta. Siamo tutti migranti sulla stessa terra.
È mutata la lista delle priorità politiche rispetto agli anni del vostro esilio?
Quando non ti manca l’acqua ne dimentichi l’importanza, ma ora la politica di destra o di sinistra è costretta a preoccuparsi con urgenza dell’ambiente.
La ricerca dell’impegno quanto ha condizionato la produzione degli Inti-Illimani?
Per circostanze storiche le nostre canzoni sono state valutate politicamente, ma la preoccupazione fondamentale ha sempre riguardato l’aspetto artistico. Siamo stati un gruppo musicale e non di propaganda. Cominciammo a suonare perché ci innamorammo degli strumenti andini, ma mantenendo le finestre aperte sul mondo: Balcani, Oriente, Nordafrica. Non un travestitismo, ma una contaminazione buona senza perdere l’identità.
Crede che la musica possa incidere sui cambiamenti?
Sono scettico, ma è un fatto che quando le cose cambiano la musica c’è sempre. La mia non è una ricetta, però mi auguro che la politica ascolti maggiormente le emozioni: mente fredda e cuore ardente. Credo che la massima aspirazione della politica debba essere quella di diventare cultura per lasciare segni importanti. Sembra invece che oggi ciò conti meno: siamo in un’epoca di ragionieri, con tutto il rispetto per i ragionieri. La concentrazione di cervelli e di sapere che c’è in Europa è enorme, ma le manca il cuore. E il coraggio.
Per fare cosa?
Per essere ago della bilancia, un terzo polo democratico e progressista di riferimento per il mondo. Hai voglia a lamentarti perché gli africani guardano ai cinesi: la Cina si è occupata di loro anche se per il proprio interesse, mentre l’Europa si è appiattita sugli interessi delle multinazionali. Adesso deve fare i conti con se stessa: i francesi sono scesi in piazza non tanto perché il governo ha alzato di due anni l’età pensionabile, ma per delusione verso le istituzioni, che stanno perdendo il rispetto dei popoli. C’è un crescente scollamento.
Come trova l’Italia?
È vero che la Storia è sempre più incontrollabile da una singola realtà nazionale, però negli anni ’70 e ’80 conobbi un’Italia più rilevante e interessante. Penso che la strategia della tensione abbia ottenuto i suoi frutti: allontanare la sinistra dal governo e poi allontanarla dalla sinistra, che è anche peggio. Appartengo a una generazione dalla creatività molto feconda e ho la sensazione che oggi la cultura egemone abbia sottomesso i valori intellettuali e artistici al solo denaro. Se ora ci fosse un Sartre ne valuterebbero il peso da quanto guadagna o dal numero dei follower.
Diceva Gaber: c’è chi aspira a passare alla Storia e chi alla cassa.
Non vedo personaggi del suo spessore. Allora erano tanti: il giorno dopo il golpe in Cile ci fu una manifestazione enorme in piazza Santi Apostoli a Roma. In prima fila scorsi Gian Maria Volonté che piangeva. M’impressionò, perché lo conoscevo solo dai film. Dove sono adesso i Montaldo, i Gregoretti, Fellini, Pontecorvo? E dov’è il cinema francese? Temo che quei livelli intellettuali siano scomparsi.
Come giudica il primo anno di presidenza Boric in Cile? E l’annuncio di nazionalizzare l’estrazione del litio?
Il Paese è ricchissimo di risorse naturali che vendiamo un tanto al chilo e ricompriamo lavorate a caro prezzo. Siamo stati sfruttati dagli inglesi, dagli americani e dai cinesi con la complicità dei nostri governi. Ben venga l’idea di Boric, perché le miniere date in concessione sono per Costituzione proprietà inalienabile dello Stato ed è ora che questa industria diventi opportunità di sviluppo. Il Cile deve recuperare dignità sociale e uguaglianza: ci sono quaranta cileni fra gli uomini più ricchi del mondo, ma nel Paese permangono gravi carenze nell’istruzione e nella sanità. Se fossi Boric avrei fatto meno concessioni alle imprese, ma bisogna ammettere che ha assunto la guida in una situazione complicata. Prima di giudicarlo, aspetto. Attivamente. Che è il modo più onesto di aspettare.
Dove sarà l’11 settembre 2023?
Negli Stati Uniti, in un tour che toccherà l’università di Berkeley, Chicago e Washington. Sarà un momento di grande confronto. Gli americani devono lottare contro le proprie paure, che permisero a Trump di governare e potrebbero farlo tornare. Serve anche a loro uno sforzo di razionalità e di passione.