CATTIVI SCIENZIATI Vale più la capacità o lo sforzo? Breve indagine sul merito (e qualche precisazione)
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Prima di ogni discussione, bisognerebbe dare una definizione precisa di merito. Ma individuarlo, valutarlo e premiarlo sarà impossibile senza prima eliminare le iniquità individuali alla partenza e diminuire le disparità di Dna e fortuna. Un compito che dovrebbe svolgere la scuola
ENRICO BUCCI 26 OTT 2022 ilfoglio.it lettura4'
Prima di ogni discussione, bisognerebbe dare una definizione precisa di merito. Ma individuarlo, valutarlo e premiarlo sarà impossibile senza prima eliminare le iniquità individuali alla partenza e diminuire le disparità di Dna e fortuna. Un compito che dovrebbe svolgere la scuola
Nella mia piccola bolla sociale, sento tutti molto scaldarsi circa l’introduzione della nuova denominazione del ministero per la Scuola, ribattezzato per l’Istruzione e il merito. Merito – quella parola inserita di soppiatto: è quella che sta scatenando infinite, accese discussioni, nella stragrande maggioranza dei casi dandone per scontata la definizione precisa. “Chi dice merito, senza specificare che cosa intenda e come intende raggiungerlo, nella migliore della ipotesi non sta dicendo nulla; nella peggiore, nasconde una cattiva coscienza”, scrive giustamente il filosofo Pasquale Terracciano.
Se vogliamo premiarlo, c’è innanzitutto da fare una considerazione: intendiamo riconoscere la migliore capacità o il maggior sforzo di un individuo per raggiungere un determinato livello? Perché, nel primo caso, l’individuo potrebbe semplicemente aver ereditato mezzi, disposizione e possibilità dai propri genitori e dal caso stesso, essendo naturalmente predisposto e migliore degli altri. Nel secondo, invece, potrebbe aver avuto necessità di moltissimo lavoro, semplicemente per raggiungere lo stesso livello di chi è partito avvantaggiato.
Qualunque sia l’ambito – scolastico, lavorativo o altro – a cosa ci riferiamo, quindi, nel definire il merito? Mi si consenta di fare un esempio concreto, proprio nell’ambito scolastico e degli studi, un esempio che conosco bene e molto da vicino: quello della mia stessa carriera, che mi ha portato dai banchi della prima elementare fino a dirigere qualche istituto di ricerca o a divenire professore aggiunto in una università americana. Non ho certo vinto il Nobel, ci mancherebbe altro, e probabilmente i miei contributi scientifici saranno presto nulla più che una riga in qualche archivio elettronico; tuttavia, durante la mia vita non sono mancate né le lodi esterne a ciò che raggiungevo, né una certa soddisfazione per essere arrivato a padroneggiare materie e concetti del mio settore con profondità e tecnica sufficienti.
Ora una semplice domanda: vi è qualche merito in quel che ho fatto? Se dovessi giudicare tanto dalle gratificazioni ricevute, quanto dalle lodi e da altri simili tipi di incoraggiamenti, la risposta dovrebbe essere affermativa. Sotto ogni metrica attraverso la quale io sia stato valutato nel mio ambito accademico, infatti, non ho avuto alcun problema a passare la selezione, insieme ai “migliori”: laurea con lode, accesso al dottorato con borsa, menzioni, premi, concorsi vinti e così via.
Guardiamo però al punto da cui sono partito. Sono nato in una casa con migliaia di volumi a mia disposizione, figlio di due accademici. Da che ho memoria, ho potuto ricevere risposte competenti e approfondite su ogni argomento di cui potessi interessarmi – contando anche su tutti i professionisti, accademici o meno, che affollano la mia famiglia. Ho potuto studiare musica, disegno e ogni cosa che desiderassi, senza preoccupazioni economiche di sorta; a casa mia c’erano microscopi, telescopi, un acquario e diverse collezioni naturalistiche; ho potuto visitare ogni museo che volessi, recarmi presso ogni mostra che mi attirasse, comprarmi ogni libro che mi interessasse e, al momento giusto, ho potuto viaggiare senza confini.
Nella mia stessa classe alle elementari avevo un compagno, che si chiamava Massimiliano. Qualche volta arrivava tardi in aula: doveva prima recarsi in officina, per espletare quel lavoro minorile che nella Napoli degli anni ’70 era ancora diffusissimo. A volte veniva a casa mia, per fare i compiti: la maestra me lo aveva quasi affidato, e, anche se io non potevo cogliere la situazione, mi prestavo ben volentieri a cercare di aiutarlo nell’imparare a leggere.
Ora io non so che fine abbia fatto Massimiliano; poniamo però il caso che oggi conduca una vita decorosa, mantenga una famiglia e svolga il suo lavoro con valore, qualunque esso sia. Di chi è il merito maggiore? Del professore aggiunto alla Temple, figlio di accademici e cresciuto quasi immerso nella cultura stessa, di quel bambino che non doveva fare altro che chiedere per soddisfare la sua curiosità, o di quell’altro bambino che doveva alzarsi prima dell’alba, svolgere le sue mansioni in un’officina e poi entrare in classe, faticando nel pomeriggio a sillabare sull’abecedario?
Poniamo poi anche che qualcuno, cresciuto nelle mie stesse condizioni, abbia raggiunto traguardi più apprezzabili dei miei oppure invece sia precipitato a livelli infimi di degenerazione. Siamo sicuri che vi sia merito o colpa in questo, e non sia invece un effetto dei geni e del caso?
Ora, una qualunque metrica premiale, per riconoscere davvero il merito, non può che considerare la predisposizione individuale a raggiungere un dato obiettivo, sia essa fatta di condizioni più o meno agevolate, genetiche o di fortuna; per cui certamente è possibile individuare un merito individuale, ma non senza eliminare le iniquità alla partenza e diminuire le disparità di DNA e fortuna. E proprio questo, esattamente questo è a mio giudizio un ruolo importante della scuola: creare le condizioni perché il merito emerga, avendo portato tutti il più possibile allo stesso livello di partenza, non solidificare le disparità di partenza, imponendo una gara iniqua fra concorrenti dispari per mezzi e potenziale.
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