Perseverare diabolicum. Il modello francese e la fissazione maggioritaria che ci avrebbe portato fuori dall’Europa
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Senza dimenticare che proprio in Francia si discute da tempo di una riforma della legge elettorale in senso proporzionale, e che a dirsi favorevole a una «proportionnelle intégrale» è stato proprio Macron
Francesco Cundari 26.4.2022 linkiesta.it lett3’
A trenta secondi dalla vittoria di Emmanuel Macron, puntuali come le congratulazioni di Giuseppe Conte a quel vincitore che alla vigilia non voleva neppure nominare, in Italia sono tornati alla carica gli appassionati del «modello francese», facendo come al solito una gran confusione tra legge elettorale, per le politiche, ed elezione diretta del capo dello stato (per gli amici: presidenzialismo, o semipresidenzialismo). A cominciare ovviamente da Matteo Renzi, convinto che il voto di domenica sia la prova che «il ballottaggio funziona».
Per quanto riguarda le politiche, segnalo peraltro che proprio in Francia si discute da tempo di una riforma della legge elettorale in senso proporzionale, e che a dirsi favorevole a una «proportionnelle intégrale» è stato proprio Macron. Ma non c’è niente da fare, la fissazione è peggio della malattia. Specialmente quando la fissazione offusca la visione del pericolo maggiore che abbiamo davanti, motivo per cui su questo giornale da due anni ci battiamo per una legge proporzionale, come ieri ha già ricordato qui Christian Rocca: «Per risparmiare all’Italia quella macabra roulette russa del maggioritario al tempo del populismo – “o vince la libertà oppure ci arrendiamo a Putin, che bello la sera stessa del voto lo sapremo!” – e per scongiurare la pallottola fatale alla tempia che i francesi domenica sera hanno schivato per miracolo».
Fino a un minuto prima dei risultati si discuteva della possibile fine dell’Europa, dal minuto dopo era tutto un darsi pacche sulle spalle e ripromettersi di farlo anche da noi, proprio come uno che, essendo appena scampato alla roulette russa, insistesse per continuare a giocare.
A titolo puramente esemplificativo valga, per i politici, l’entusiasmo del deputato del Partito democratico Filippo Sensi, che alle otto e venti del 24 aprile twitta: «E niente, nel giro di due minuti si sa chi ha vinto e chi ha perso, si fanno i discorsi, si torna al lavoro. Ma parliamo di proporzionale, dai». Come se l’eventuale cambiamento della legge elettorale in senso proporzionale, per le politiche, avesse qualcosa a che fare con la scelta del capo dello stato (sì, ho intenzione di ripeterlo almeno una volta ogni dieci righe). Capo dello stato che peraltro in Italia è stato appena rieletto, grazie al cielo. Ma soprattutto come se dopo le ultime elezioni, con la legge elettorale attuale, non ci fossero voluti mesi prima di veder nascere il nuovo governo.
A testimonianza di una passione per il modello francese che non riguarda solo i politici, molto significativo è l’articolo di Stefano Folli, che ieri su Repubblica ha scritto: «Il fatto che Macron abbia riassorbito in buona misura la fascia del malcontento non si deve tanto a una sua trasformazione politica, quanto alla logica del sistema maggioritario a doppio turno. Di nuovo ha disinnescato le spinte centrifughe e ha evitato il frantumarsi del paese. Per quanto ci riguarda, è chiaro che un sistema col ballottaggio avrebbe evitato l’esito del 2018, quando un risultato nel segno della protesta senza progetto consegnò il paese per metà legislatura al M5s e alle sue ambiguità».
Già non è facile sostenere che la legge elettorale avrebbe «disinnescato le spinte centrifughe» in un paese in cui sono scomparsi tanto i socialisti (sotto il 2 per cento) quanto i gollisti (sotto il 5), e che vede i populisti di Jean-Luc Mélenchon al 21 da un lato, dall’altro i sovranisti di Marine Le Pen al 23 (e quelli di Eric Zemmour al 7). Sostenere però che con il doppio turno in Italia si sarebbe «evitato l’esito del 2018» appare ancora più azzardato, anche tralasciando il fatto che nel 2018 non si votava per il capo dello stato (erano passate le dieci righe, più di così non potevo trattenermi). È ragionevole pensare, semmai, che nella maggior parte dei collegi al ballottaggio sarebbero andati i candidati del centrodestra contro quelli del Movimento 5 stelle, e anche dove il Pd fosse riuscito ad accedere al secondo turno, è assai verosimile che sarebbe finita come erano finiti, meno di due anni prima, ii ballottaggi per i sindaci di Roma e Torino.
È la trappola micidiale del bipopulismo: chiunque avesse prevalso alla fine tra populisti e sovranisti, se davvero il vincitore avesse potuto applicare immediatamente il proprio programma elettorale senza tanti compromessi parlamentari, a quest’ora saremmo stati già allegramente fuori dall’euro, e magari anche fuori dalla Nato.
Però, va detto, lo avremmo saputo subito.