Così crolla una civiltà
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Denatalità, aborto, celibato, divorzio, malthusianesimo: ecco perché è finito l’Impero romano Lo storico francese De Jaeghere racconta l’epoca del disincanto che tiene di mira l’occidente
Thomas Cole, “La distruzione dell'Impero romano” (particolare), 1836 (New York, Historical Society). Il dipinto, allegorico, è ispirato al sacco di Roma del 455 a opera dei Vandali
di Giulio Meotti | 16 Agosto 2016 ore 09:22
Prima fu Montaigne, che nel freddo inverno del 1580 a Roma si guarda intorno e riflette sulla “grandezza infinita” soffocata sotto quei ruderi. Poi Piranesi e Goethe, che si soffermano davanti alle rovine del Foro romano, alle occhiaie vuote del Colosseo, all’immensità delle Terme di Caracalla. Due secoli dopo, davanti a quella stessa maestà indistruttibile, fu Edward Gibbon a interrogarsi sui motivi che portarono alla fine del maggior impero della storia, a descriverne il rapido declino e l’agonia. Passano altri due secoli e uno storico inglese, Michael Grant, individua le somiglianze fra Roma e l’occidente: i ricchi, come allora, enormemente ricchi, che si distaccano dal tessuto sociale; la borghesia che perde ogni capacità di resistenza; la burocrazia che si estende in modo incontrollabile; la classe politica che vive isolata dai sentimenti delle masse. Le orde dei barbari, i fantasmi delle province periferiche, le ville dei senatori egoisti, i fragori degli scontri religiosi e razziali passano ammonitori, costantemente tenendo di mira il presente.
L’idea del declino occidentale spiegato attraverso la storia di Roma non è affatto nuova. Dopo la Prima guerra mondiale, un insegnante tedesco prematuramente in pensione di nome Oswald Spengler aveva pubblicato il primo volume di uno dei libri più influenti del secolo, “Der Untergang des Abendlandes”, tradotto come “Il tramonto dell’occidente”. Un testo accantonato nella seconda metà del secolo, troppo turgida la sua prosa, troppo acceso il suo debito nei confronti di Nietzsche, troppo evidente la sua influenza sui nazisti. Poi, fino al crollo dell’Unione sovietica, gli storici si sono concentrati su quello che lo storico britannico J. M. Roberts ha chiamato “Il trionfo dell’occidente”, in un libro pubblicato nel 1985. Vi è stata poi la consolidata tradizione liberal espressa da Gore Vidal nel suo “Declino e caduta dell’impero americano”, il rischio che gli Stati Uniti potessero fare la fine di Roma, la paura che le istituzioni repubblicane potessero essere danneggiate da una presidenza imperiale.
Adesso Roger-Pol Droit, classe 1949, accademico francese e filosofo di fama internazionale, affronta l’argomento in uno strepitoso saggio di copertina della rivista Le Point, dove campeggia l’immagine di Roma in rovina. “Francia, Belgio, Germania, si moltiplicano gli attacchi terroristici”, scrive Roger-Pol Droit. “Mentre aumenta il numero delle vittime, l’impotenza e la fragilità della nostra civiltà, la sua usura e il suo declino, hanno cominciato a perseguitarci”. Ovunque ci sono segni di frattura: “I jihadisti hanno condotto l’assalto contro le libertà delle democrazie laiche. Le nostre paure sono innumerevoli: pandemie, invasioni, cambiamenti climatici, veleni alimentari, estinzione delle specie… Il caos e le lacrime occupano l’immaginario collettivo, ormai saturo di confronti simbolici. Forse un giorno parleranno di noi come si parla dei dinosauri: un universo strano, andato, inghiottito. Non appena ci guardiamo indietro, che spettacolo! Civiltà scomparse hanno lasciato dietro di sé macerie, capolavori e domande per lo più senza risposta”.
Roger-Pol Droit fa l’esempio di otto civiltà perdute, oltre a Roma. Come la Mesopotamia, il territorio dell’Iraq moderno, dove più di tremila anni prima di Cristo la civiltà sumera aveva inventato la scrittura, i contratti commerciali, e altri fattori chiave del progresso. “Rivolte e rovesci militari possono essere la causa della sua morte”. C’è la storia di Creta, l’isola del re Minosse, che “ha visto una fiorente civiltà i cui palazzi, scritture, metallurgia, ceramica e terracotta, affreschi e raffinatezza non hanno smesso affascinare Arthur John Evans. Le ragioni della sua scomparsa sono controverse e i terremoti non sono più considerati una spiegazione sufficiente”. Ci sono gli Olmechi del Messico: “Le cause della loro scomparsa rimangono sconosciute”. Si passa dagli Etruschi ai Nabatei di Petra, la capitale scavata nella roccia. Per arrivare al regno Khmer: “Questo vasto impero sembra essere crollato sotto una combinazione di eccessiva burocrazia, immigrazione e impoverimento del suolo”. E per concludere con gli Anasazi in America (“sappiamo solo che i loro villaggi furono abbandonati molto tempo prima dell’arrivo degli europei) e l’Isola di Pasqua nel Pacifico: “Abitata, fiorente, poi abbandonata per ragioni che sono ancora oggetto di discussione”.
Le civiltà muoiono dall’esterno o dall’interno? Questo è il quesito più affascinante e riguarda anche l’occidente contemporaneo. “La loro scomparsa è il frutto di aggressioni esterne (guerre, disastri naturali, epidemie) o la conseguenza di una erosione interna (decadimento, incompetenza, scelta disastrosa)?”, si chiede Roger-Pol Droit. Arnold Toynbee, nel secolo scorso, è stato irremovibile: “Le civiltà muoiono per suicidio, non per omicidio”. Questa formula dello storico britannico, autore di uno studio monumentale di storia in dodici volumi, pubblicati dal 1934 al 1961, è diventata celeberrima. Lo studioso francese René Grousset ha sviluppato la stessa idea: una civiltà è distrutta dalle proprie mani. “Nessuna civiltà viene distrutta dall’esterno senza essersi innanzi tutto essa stessa deteriorata, nessun impero viene conquistato dall’esterno senza essersi precedentemente autodistrutto”, scriveva Grousset. “E una società, una civiltà non si distruggono con le proprie mani che quando hanno cessato di capire la loro ragione d’essere, quando l’idea dominante intorno alla quale si erano dianzi organizzate ridiventa loro estranea”.
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Nel 2005, Jared Diamond, professore di geografia presso l’Università della California, nel suo libro “Collapse” indica cinque fattori principali di mortalità delle civiltà, in testa il cambiamento climatico. E’ il caso dei vichinghi, che in Groenlandia prosperarono per quattro secoli, prima di degenerare rapidamente, fra violenze e carestie, rimanendo infine vittime della loro insipienza. C’è invece chi, come l’americano Joseph Tainter, autore del celebrato saggio “The Collapse of Complex Societies”, sostiene che a causare il crollo delle civiltà, come Roma, siano sistemi istituzionali sempre più costosi, la svalutazione monetaria, il debito pubblico, la tassazione e l’eccessiva regolamentazione. “Ogni civiltà ha la tendenza a credersi eterna”, scrive Roger-Pol Droit. “Non prevede la fine, tranne la nostra”. Roma, per esempio, non ha mai pensato che il suo regno si sarebbe estinto. Le generazioni hanno visto un mondo che si stava disintegrando, ma per secoli, nonostante lo scricchiolio, l’edificio sembrava immortale. “Ci sono solo tre possibili ipotesi”, conclude il filosofo francese. “Il più ottimista in cui ci si illude che la nostra sopravvivenza sia altamente probabile. Il più pessimista: la nostra terra un giorno non lontano sarà fredda come la luna. L’ipotesi più plausibile è che i nostri attuali stili di vita periranno, ma tutto il resto vivrà. Come al solito”.
Un altro storico francese, Michel De Jaeghere, direttore del Figaro Histoire, nel suo libro di seicento pagine “Les derniers jours”, gli ultimi giorni, spiega che la vera grande causa della caduta dell’impero fu l’implosione demografica. Il volume è stato appena tradotto in italiano dalla casa editrice Leg, nella bella traduzione di Angelo Molica Franco. De Jaeghere spiega che “a partire dal Terzo secolo il declino demografico divenne evidente”. Non ci fu soltanto la “peste antonina”, che imperversò sotto Marco Aurelio e Commodo. La crisi economica, l’insicurezza, il brigantaggio, scoraggiarono la natalità, che smise di garantire anche il semplice rimpiazzo delle generazioni. In Gallia la popolazione era regredita del venti per cento. “Le famiglie erano fragili e poco feconde. Il concubinato rimaneva la norma, il divorzio era frequente, la mortalità elevata. Le province di frontiera del Reno e del Danubio (Rezia, Norica, Pannonia, Mesia) avevano una densità di popolazione bassissima; per questo avrebbero esercitato sui barbari che vivono dall’altro lato del confine un’attrazione irresistibile. La perdita della pietas si tradusse, da dopo l’apogeo dell’Alto Impero, in uno spopolamento che avrebbe avuto un grande peso sui destini del mondo romano. Se si arrivò a reclutare i barbari nell’esercito, a donare loro delle terre, se si cercò di imprigionare i popoli sotto un giogo fiscale, amministrativo e finanziario, fu in gran parte perché il censo ogni cinque anni costringeva le autorità a constatare che la popolazione romana diminuiva di continuo, persino nelle provincie non esposte all’invasione e alla guerra”. L’archeologia porterà alla luce cimiteri in luoghi dove due secoli prima esistevano alcuni dei più prestigiosi edifici della vita urbana. “L’impero d’occidente non aveva più una popolazione sufficiente e quindi meno ricchezze per affrontare lo sforzo sovrumano che richiedeva, in termini di uomini e di denaro, la difesa del suo vasto territorio e delle sue lunghissime frontiere”. Augusto aveva promulgato delle leggi contro i celibi (riguardavano solo i cittadini romani, quindi in sostanza solo la popolazione italiana). Lucano aveva descritto, sotto Nerone, la desolazione di un’Italia in cui “pochi abitanti vagano per le strade deserte di antiche città”.
La crisi demografica accasciò l’impero nei primi due secoli della nostra èra: “Nell’età dell’oro dell’Alto Impero, all’apogeo della civiltà. Il divorzio era diventato una pratica comune tra le élites alla fine della Repubblica, sotto l’influsso dei costumi ellenistici”. La contraccezione era praticata in tutta la scala sociale: “Galla – scriveva Marziale in uno dei suoi Epigrammi – vuole essere soddisfatta ma non vuole figli”. “Qui – dichiarava un contadino di Crotone nel ‘Satyricon’ di Petronio – nessuno cresce bambini perché se si hanno degli eredi naturali non si viene invitati ai banchetti, né agli spettacoli, si è esclusi da ogni piacere e si vive in tristezza tra la feccia”. Le fonti letterarie ci informano della varietà dei metodi utilizzati: amuleti e pozioni magiche, periodi di astinenza, impacchi o beveroni a base di noce di galla, di ferola erubescente, di artemisia, di scorza di melograno, di polpa di fico secco. “Nel II secolo l’aborto, che fino ad allora veniva praticato per far sparire bambini nati da amori clandestini, si estese a grande scala tra le coppie dell’alta società. L’infanticidio di una creatura non riconosciuta dal padre non veniva punito dalla legge. L’omosessualità era diffusa”. Se lo spopolamento venne aggravato dalle epidemie di peste scoppiate ai tempi di Marco Aurelio e di Claudio II, oltre che dai cinquant’anni di guerra e di distruzioni del III secolo, questo tuttavia non fu solo la conseguenza della crisi dell’impero, “ma anche lo specchio di un disincanto, il frutto di un materialismo che portava a ritenere la famiglia una forma di schiavitù, il bene comune una chimera e la felicità di vivere senza obblighi, invece, come il fine supremo dell’esistenza”. Per dirla con Papa Benedetto XVI, “il disfacimento degli ordinamenti portanti del diritto e degli atteggiamenti morali di fondo che ad essi davano forza, causavano la rottura degli argini che fino a quel momento avevano protetto la convivenza pacifica tra gli uomini. Un mondo stava tramontando”. Michel De Jaeghere spiega ancora che “i privilegiati praticavano un malthusianesimo che garantiva loro di soddisfare la propria arte di vivere, i contadini evitavano gravidanze che li avrebbero fatti vivere nell’imbarazzo, le masse urbane li imitavano per preservare il livello di vita che veniva loro assicurato, senza eccessivo sforzo, dagli aiuti e dalle distribuzioni statali”. Una serie di leggi d’ispirazione cristiana tentò, nel IV secolo, di rilanciare la demografia: con impedimenti al divorzio, multe per la rottura dei fidanzamenti, repressione degli stupri, dei rapimenti, dell’omosessualità, dell’adulterio, senza che in apparenza si ottenesse alcun risultato. “Si stima che il tasso di fecondità delle famiglie aristocratiche non fosse superiore a 1,8 figli per donna, nel IV secolo”. Appena un po’ meglio di quello dell’Europa di oggi (1,5).
Michel De Jaeghere conclude indicandoci Roma come un monito: “Possiamo stare tranquilli davanti allo spettacolo della nostra prosperità senza precedenti, delle nostre tecnologie sempre più sofisticate, di un mondo le cui connessioni virtuali danno l’illusione dell’onnipotenza. Possiamo persuaderci del fatto che i sintomi che annunciavano la caduta dell’Impero romano di occidente si erano manifestati in modo chiaro ai loro contemporanei. Che le élites del V secolo (la generazione degli ultimi Romani che fu testimone del sacco di Roma e della perdita della sua potenza) avevano presagito che avrebbero vissuto grandi avvenimenti, che il destino li aveva scelti per assistere all’affondare del più grande impero mai esistito sotto il cielo. Che non soffriremo alcun male finché non noteremo nessuno dei segnali che avevano fatto intuire loro il disastro. Non è così, però. I contemporanei della fine dell’impero romano, infatti, rifiutarono di crederci per tutto il tempo in cui riuscirono ad afferrarsi alle loro chimere. Roma ci serve da avvertimento”.
Edward Gibbon nel suo capolavoro sul crollo dell’Impero romano indica il ruolo decisivo giocato dall’islam, che prima diede un colpo mortale al ramo d’occidente avanzando in Francia fino a Poitiers (732), e che poi fece crollare quello d’oriente con la presa di Costantinopoli (1453). Siamo al terzo capitolo di questa saga?
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