Così la confraternita islamica di Erdogan ha lavorato ai fianchi la laicità turca
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Un filo rosso lega il primo califfo ai musulmani della Cina comunista fino alle purghe del presidente turco: la Naqshbandiyya. Alessandro Grossato, orientalista della Facoltà teologica del Triveneto, spiega i successi ottenuti dell’organizzazione
Mehmed Zahid Kotku (1897-1980) del ramo Gümüshanevi della confraternita;
di Daniel Mosseri | 20 Luglio 2016 ore 18:16
Berlino. C’è un filo rosso che permette di ricostruire la storia di molte società islamiche fra Asia ed Europa. E’ un ordito che attraversa il tempo e lo spazio, collegando idealmente il primo califfo, Abu Bakr (573-634), agli uiguri nella Cina comunista fino alle purghe del presidente turco Recep Tayyip Erdogan. E’ la Naqshbandiyya, la confraternita sufi dedita alla conservazione dell’identità islamica. Là dove l’islam è messo al bando – la Turchia kemalista o i regimi comunisti sovietici – l’azione della confraternita è più incisiva, compendiando l’assistenza alla popolazione con l’attiva, e spesso segreta, attività politica. Alessandro Grossato, orientalista della Facoltà teologica del Triveneto, racconta al Foglio i successi ottenuti della confraternita attraverso l’arte della dissimulazione, con i suoi membri capaci di celare l’appartenenza all’organizzazione, Alessandro Grossato“ma soprattutto la propria identità islamica, arrivando al punto di rinnegarla esteriormente”. In tempi recenti sono stati i russi a capire meglio la forza della Naqshbandiyya, vuoi “per il suo ruolo essenziale nella rivolta anticomunista e antirussa in Afghanistan fra il 1979 e il 1989”, vuoi per la ritrovata vitalità dell’islam nell’Asia ex sovietica, dove alti dirigenti comunisti “sono stati in segreto sia musulmani sia naqshbandi”.
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Conoscere la confraternita permette di evitare gravi errori di valutazione. Già nel 2010 sulla “Rivista di Politica” Grossato leggeva la Turchia alla luce della Naqshbandiyya. “In tanti credevano che il partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp) di Erdogan fosse una versione turca della Democrazia cristiana e davanti alla mia analisi fecero spallucce. Un abbaglio diffuso”. Nel suo articolo l’orientalista ricordava una serie di primi ministri turchi naqshbandi come Turgut Özal (poi capo dello stato), Necmettin Erbakan e lo stesso Erdogan. Tutti allievi dello sheikr Mehmed Zahid Kotku (1897-1980) del ramo Gümüshanevi della confraternita; tutti impegnati a riportare la Turchia sulla via dell’islam e tutti osteggiati dai militari. Grande dissimulatore, spesso descritto come kemalista moderato, “nel 1998 Özal tornò da un pellegrinaggio alla Mecca dicendo ‘in Turchia lo stato è laico, ma io no’”. Dimentico della regola di lavorare nell’ombra, Erbakan, fu così antikemalista che “nel 1998 Gheddafi lo definì ‘soldato del jihad’”. Il gioco della dissimulazione è passato in Turchia anche dalla proliferazione partitica, e così Erdogan ha fondato il più moderato Akp in finta concorrenza con il Partito (islamista) della Felicità di Erbakan, permettendo alle due formazioni di massimizzare i consensi nelle città e nelle zone rurali.
Anche la richiesta di adesione all’Europa è strumentale al progetto della confraternita. Nel 1987 “Özal aveva compreso che un’integrazione nell’Europa avrebbe costituito la miglior garanzia di libertà d’espressione per l’Islam turco, sia sul piano religioso che su quello politico”. Sono stati proprio i criteri di Copenhagen del 1993 pensati dall’Unione europea per l’adesione dei paesi centro-orientali a permettere modifiche costituzionali che hanno scardinato l’impianto kemalista. Messi i militari nell’angolo e modificato il meccanismo per eleggere i giudici, oggi “Erdogan si è lasciato alle spalle l’Ue e forse l’intero occidente. Si può dire che il progetto neocaliffale può partire solo adesso, grazie al fallimento dell’ultimo colpo di coda degli eredi di Atatürk”. Il padre della Turchia moderna abolì il califfato nel 1924 ma la sua restaurazione è possibile. “Ancora oggi il buon musulmano va a chiedere i miracoli sulle tombe dei califfi, figure carismatiche e molto amate, paragonabili ai santi medievali. E’ anche grazie a loro che il sufismo è così popolare”. Il progetto non comporta né la nomina dello stesso Erdogan quale prossimo “vicario” del profeta né tantomeno che il califfo a venire debba seguire le orme violente dell’autoproclamato califfo al Baghdadi dello Stato islamico. La tradizione sufi impone il rispetto delle altre fedi, “e tutti i sultani ottomani, compreso l’ultimo, erano membri della Naqshbandiyya”.
Abbandonato il sogno europeo, e fallito quello dell’arco sunnita, oggi Erdogan guarda alla Russia e alla Cina, e Grossato ricorda come dal 2012 Ankara abbia lo status di “partner di dialogo” dell’Organizzazione di Shanghai per la cooperazione. Annichiliti i kemalisti, sul fronte politico gli resta un arci-nemico: il suo ex alleato Fetullah Gülen. “Il teologo di scuola hanafita Gülen non è stato iniziato ad alcuna confraternita. Anzi, come ha sempre sottolineato, non considera affatto necessaria tale appartenenza per un buon musulmano”. L’orientalista tira anche le orecchie a chi descrive il predicatore come un mistico sufi giacché i suoi riferimenti al sufismo “sono sempre stati di carattere prevalentemente letterario. E se la sua strada e quella di Erdogan si sono incrociate per diversi anni, è stato per semplice calcolo politico”.
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