Come nasce l’occidente urlante
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In Austria i Verdi vincono per un soffio. Ma globalmente i partiti mainstream sono in apnea. In crisi equiparazione delle culture, kantismo globale e liberoscambismo
di Antonio Pilati | 23 Maggio 2016 ore 18:20 Foglio
Dalle elezioni tenute in Europa nell’ultimo triennio emerge un forte impulso a scomporre e rimescolare si restringe il consenso dei partiti mainstream che condividono i temi di fondo, costitutivi dell’attuale identità politica europea (rafforzamento dell’integrazione nel quadro dell’Unione europea, visione multiculturale e aperta verso gli immigrati, espansione della libertà commerciale, sensibilità ai diritti civili), e si estende la presa dei partiti radicali che declinano – a sinistra sulla chiave della solidarietà e del soccorso pubblico, a destra sulla chiave dell’autodifesa esistenziale – un diverso quadro di idee connesso ai sentimenti di sconcerto e paura che si diffondono nel continente.
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In molti paesi la conseguenza che ne deriva è il logoramento e spesso il cambio del formato standard che definisce il sistema politico: il suo asse principale – quello attorno cui ruota la contesa per la conquista della maggioranza – non è più collocato nell’area mainstream con socialisti e popolari (o conservatori) che si affrontano in una competizione bipolare (lasciando liberali o centristi nel ruolo di shifting partner). Sorgono invece sistemi tripolari (Italia, Francia) a forte presenza radicale, confusi (la Spagna attuale) o basati su un bipolarismo di segno diverso. In qualche caso grandi coalizioni mainstream esplicite (Germania, Austria, Paesi Bassi) o implicite (Svezia) si contrappongono a partiti anti-Ue, in altri casi fronti eterogenei allineano in modi variegati soggetti di nuovo tipo: in Danimarca, Belgio, Norvegia e Finlandia un partito anti-immigrati di grande successo elettorale integra la coalizione di centro destra e le dà la maggioranza; in Portogallo i socialisti si alleano all’estrema sinistra anti-Ue; in Grecia un partito antagonista, anche se responsabilizzato a viva forza, come Syriza, prende il posto dei socialisti. In sintesi: o uno dei poli si riconverte accentuando l’inclinazione radicale (e spesso vince: vedi l’irrigidimento di molti paesi sul tema dei migranti), oppure si creano grandi coalizioni che finiscono rapidamente sulla difensiva e, faticando a gestire le emergenze, alimentano l’espansione delle formazioni estremiste.
La dinamica ora in corso, così disgregante, è spiegata di solito come il risultato di tre fattori intrecciati fra loro: la crisi economica sulla quale incide, con effetti negativi più visibili di quelli positivi, l’espansione globale dei mercati; il cattivo funzionamento dell’Ue; la pressione dell’immigrazione. Tuttavia anche gli Stati Uniti, che da tempo sono tornati a crescere e hanno meno problemi dell’Europa nell’assorbire immigrati, vivono sviluppi politici analoghi: la turbolenta contesa delle primarie – sia democratiche sia repubblicane – lo testimonia. L’outsider Donald Trump, con un’inedita campagna avversa alla dimensione mondiale dei mercati, al free trade e alle strategie di vasto impegno internazionale, ha dissestato la visione tradizionale del partito repubblicano facendo a pezzi tutti i candidati legati all’Establishment (dinastia Bush in testa). Tra i democratici il blocco centrista che interpreta la continuità ideologica del partito, stretto attorno alla Clinton, ha molto sofferto la sfida anti-sistema del “socialista” Sanders, prevalendo alla fine solo di misura.
Decisivo sulla scena americana appare un aspetto di rottura ideologica, un impulso di revisione culturale che in Europa scorre sotto traccia: l’elemento più aspro di contrasto fra Trump e i dirigenti repubblicani, quello più difficile da comporre, è proprio l’attacco al nucleo intimo di princìpi del Gop; in modo simile, anche se con uno stile meno abrasivo, Sanders punta a smantellare – su temi cruciali come la responsabilità dei grandi centri finanziari o le iniziative militari – la sintesi ideologica mainstream del suo partito. In Europa la frattura culturale, oscurata da tormenti maggiori come quelli connessi alla grande scommessa della moneta unica, non esplode in primo piano. In realtà, però, su entrambi i lati dell’Atlantico perde consistenza negli anni della crisi e poi si dissolve quel sistema di idee che in ambito sociale e politico le classi dirigenti delle nazioni occidentali, con qualche variazione locale, hanno perfezionato alla fine della Guerra fredda e quindi affermato come generale quadro di riferimento: da anni ormai i suoi elementi essenziali ricevono dalla storia ripetute, drammatiche smentite empiriche.
Proviamo a fare un breve elenco delle idee-cardine vigenti nel periodo della crisi e vediamo come hanno reagito alla pressione degli eventi. In ambito antropologico il leitmotiv è l’equiparazione delle culture diffuse nel pianeta: ciò le rende in linea di principio compatibili in quanto ognuna apprezzabile e benefica nei suoi fondamenti, ne eguaglia i risultati e legittima tutte le pretese (anche se aberranti, almeno dal punto di vista occidentale). La diffusione capillare di un simil-stato conquistatore e schiavista che svilisce la vita umana squalifica l’idea e ripropone le questioni della differenza (irriducibile?) fra civiltà e dell’autodifesa (modi, mezzi, limiti) da parte di chi è attaccato. In campo politico si afferma, quasi come una moda intellettuale, la propensione a vedere gli stati nazionali in progressivo declino e pronti a diluirsi in costellazioni sovraordinate: a governarle valgono, più che la forza politica e gli interessi materiali, cogenti e condivisi principi giuridici (è un corollario dell’idea precedente: culture compatibili e non antagoniste evitano, maturando con le esperienze della storia, di rinchiudersi in strutture politiche, come gli stati, autocentrate e inclini alla reciproca ostilità). Ne deriva, per nesso diretto, la prevalenza delle obbligazioni giuridiche sulla ragion di stato. Sempre più spesso invece stati di medie e grandi dimensioni perseguono politiche di tutela e sviluppo degli interessi nazionali molto assertive, quando non aggressive, che accentuano le tensioni sulla scena internazionale; in parallelo gli organismi sovranazionali, a partire dalla Ue, vivono una stagione di ripiegamento e di riduzione dell’influenza. Le conseguenze, come mostra l’Europa, incidono direttamente sulla vita quotidiana dei cittadini. Allo stesso modo le politiche motivate o esplicate in base a imperativi giuridici (diritti umani, confini intangibili) procurano – dall’Ucraina ai sostegni per le primavere arabe, dal Kosovo alla Mesopotamia – vaste complicazioni.
In economia due idee-cardine, in particolare, sono state messe alla prova dagli eventi legati alla crisi. L’idea, centrale nel consenso degli economisti, secondo cui la circolazione delle persone, delle merci e soprattutto dei capitali apporta sempre benefici si misura con una lunga serie di danni e difficoltà locali: l’ampiezza di scala, la rapidità e le condizioni favorevoli con cui sono stati aperti e passo dopo passo integrati i mercati di tutto il mondo creano bruschi trasferimenti di ricchezza e complicano, nelle economie avanzate, la vita delle popolazioni. Anche il motivo dell’eguaglianza, che si è rivelato cruciale per molti anni nella riflessione economica e politica sia nella forma di criterio direttivo per la distribuzione della ricchezza sia come requisito essenziale per la competizione nel mercato, è sottoposto ora a un severo esame di realtà: gli stati, con i bilanci sempre più sotto stress (banche da salvare, welfare da tutelare davanti all’ascesa delle richieste scatenata da demografia e geografia), non hanno più risorse per compensazioni redistributive e mettono il tema ai margini; lo sviluppo arrembante della tecnologia, che di fatto è l‘unica prospettiva per dare respiro a economie compresse dalla stagnazione (secolare?), genera di continuo disparità di condizioni e stati di monopolio, che sono poi il vero modo di remunerare vena creativa e capacità di investire, formando costanti squilibri competitivi.
Il tracollo ideologico fa da catalizzatore alla crisi economica: ne amplifica gli effetti, toglie speranza, scava un solco tra le popolazioni, che vedono andare in pezzi il proprio ambiente d’esistenza, e le classi di rigenti, che difendono il vecchio quadro culturale e smarriscono capacità di indirizzo. Rimaste senza guida, le nazioni perdono coesione sociale: faticano a comprendere gli eventi, non riconoscono più luoghi organizzati di mediazione e comunanza, avvertono minacciata la loro stessa esistenza quotidiana – alla fine chiamano in causa la politica che, in democrazia, ha la responsabilità ultima per le condizioni di vita della collettività. Senza un riferimento ideale che offra un filo conduttore per quello che accade e gli presti un senso, crisi economica e disagio politico fanno corto circuito, si addensano l’una sull’altro e diventano groviglio. Su questo terreno si impianta l’attuale rimescolamento politico che, proprio perché riflette mutamenti strutturali, ha l’aria di essere durevole e di consolidare inediti allineamenti. Tra le forze tradizionali i partiti socialdemocratici si mostrano particolarmente fragili e vulnerabili, assai più dei popolari: finiscono quasi sempre, tranne pochi casi (Italia, Portogallo, Norvegia, Svezia), a quote elettorali intorno al 20 per cento, cadono spesso – quando governano – nell’irrilevanza (Spd, Hollande) e sono esposti in più paesi o all’insidioso attacco esterno di movimenti radicali che vogliono sostituirli (Syriza l’ha già fatto, Podemos lo sta per fare, i Verdi in Austria ci provano) o all’espansione interna di correnti massimaliste (Corbyn). I partiti conservatori collocati al governo si rivelano invece più abili nel lasciare traccia (sono sempre loro a marcare le grandi coalizioni) e talvolta riescono anche a fare alleanze con partiti estremisti.
Questa differente capacità di affrontare l’attuale sconvolgimento dipende probabilmente dalla diversa influenza che il pensiero mainstream esercita sull’identità e l’iniziativa politica dei vari partiti: i socialisti, dopo la contrazione delle loro storiche basi sociali, hanno trovato motivazioni e ragione sociale nel pacifismo giuridico (universalismo dei principi) e nel tema dell’eguaglianza in entrambe le sue declinazioni; i conservatori traggono invece dalla propria tradizione, che mantiene forti legami con il sentimento nazionale, una solida attitudine realistica che li pone a qualche distanza – anche se non di sicurezza – dalle idee fino a ieri prevalenti. I partiti radicali, che nascono dal basso – fuori dalle famiglie politiche costituite da tempo – e risentono quindi di peculiari tratti locali, condividono l’esigenza di comporre una serie eterogenea di spunti, denunce, sofferenze in un quadro coerente che dimostri efficacia di governo: è la sola via per generare credibilità a lungo termine e consolidarsi come un polo stabile entro l’incombente ridefinizione dei sistemi politici. In ciò determinante risulta la capacità di attrarre nella nuova sintesi che cercano di elaborare segmenti di classe dirigente colmando così l’ostile divaricazione di oggi.
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