Le belle guardie rosse
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Cinquant’anni fa la catastrofe della Rivoluzione culturale. Ma i nostri intellettuali rimasero ipnotizzati dalle sirene di Mao e si fecero mettere l’anello al naso
Un manifesto degli anni della Rivoluzione culturale in Cina (1966-1976)
di Giulio Meotti | 22 Maggio 2016 ore 06:07
“Maggio 1966-ottobre 1976, un olocausto senza precedenti nella storia della Cina”, recita la targa commemorativa di un decennio in cui Mao sorrideva enigmatico e crudele davanti a venti milioni di guardie rosse a cui aveva chiesto di “bombardare il quartier generale”. Prima, nel 1958, c’era stato il Grande Balzo in Avanti, cento milioni di persone, poveri contadini che compivano, giorno dopo giorno, il miracolo di spostare con le mani le montagne, in una impossibile, autarchica industrializzazione forzata. “Su una pagina bianca si scrivono bei poemi”, e fu la più grande carestia di tutti i tempi (da quindici a trenta milioni di morti). Poi venne quel decennio chiamato “Rivoluzione culturale”. Fu un Isis, un regno dei talebani, ante litteram. L’Ufficio per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio in Afghanistan aveva ordinato la distruzione di ogni strumento musicale (perfino delle custodie). Recita una norma talebana: “Nel Giorno del giudizio verrà versato piombo fuso nelle orecchie di coloro che avranno ascoltato musica e canti in questo mondo”. Una cosa analoga si verificò per la prima volta durante la Rivoluzione culturale cinese. Il corpo delle donne doveva essere cancellato dentro la mascolina e orrida divisa proletaria. Vennero messi al bando profumi, cosmetici, vestiti e scarpe non proletarie. Proibita la pubblicazione delle foto delle cosiddette “belle ragazze”.
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Si cominciò con la distruzione dei pianoforti, che venivano fatti a pezzi (spesso insieme ai pianisti). Stessa sorte toccò ai violini e alle mani dei violinisti. Proibite le musiche di Mozart, Beethoven, Bach e di tutti gli altri sporchi “ideologi borghesi”. Il pensiero di Mao venne imposto attraverso una ripetizione ossessiva, una cantilena che doveva creare un popolo di automi, sopprimere ogni impulso dell’individuo, “un malato da spaventare e da curare con le buone”, come disse Mao. E da guarire per sempre.
I giovani così saccheggiarono i templi, abbatterono le stupende statue dell’antichità e le finirono a colpi di piccone. Cittadini sospettati di “revisionismo” vennero portati alla berlina per le strade. Non si poteva più uscire per le strade di Pechino senza incontrare uomini e donne, per lo più vecchi, che portavano sul petto cartelli con le scritte infamanti: “Sono un proprietario fondiario”, “Sono un imbecille”. Sotto gli occhi vigili delle guardie rosse, un parrucchiere improvvisato taglia i lunghi capelli di una ragazza inginocchiata. Ogni tanto la giovane alza le braccia nel tentativo di fermare le forbici. Le guardie rosse la percuotono. Aveva osato essere bella.
I laureati furono mandati a zappare e cataste di libri occidentali vennero distrutte con gli schiacciasassi, in ottemperanza al motto secondo cui “più uno sa, più diventa reazionario”. Fu la persecuzione premeditata degli intellettuali, la distruzione di materiale di laboratorio nelle facoltà scientifiche e lo scioglimento di istituti di ricerca, che avrebbero aggravato ulteriormente l’arretratezza tecnologica della Cina nei confronti dei paesi più industrializzati. Dopo anni ci si accorse che il risultato era stato l’analfabetismo di massa.
Ciò accadde in un paese il cui popolo fu il primo a produrre la carta e a inventare la stampa. I cantanti dell’Opera furono inviati nelle campagne a studiare per mesi in presa diretta la vita dei contadini che dovevano rappresentare sul palcoscenico.
Il vecchio mondo cinese di maschere, passi di danza su ponticelli sospesi sul fiume, coreografie nell’ambiente della Cina imperiale, venne cancellato. Al loro posto arrivarono spettacoli dove, per ore, attori e attrici vestiti da soldati si limitavano a leggere frasi di Mao e a cantare slogan di guerra contro “imperialisti” e “revisionisti”.
La Città imperiale fu proibita, il Tempio del cielo divenne un accampamento e su molte pitture venne distesa una cortina di vernice rossa. Tutte le chiese vennero sbarrate e sugli ingressi furono appesi grandi ritratti di Mao. Molte famiglie distrussero i loro oggetti d’arte, bruciarono o strapparono foto, diari e lettere, per evitare che finissero nelle mani degli zeloti rossi.
E l’occidente? Chiuse gli occhi, preferendo ascoltare, invece di quelle cifre mostruose, le sirene del Grande timoniere affaccendato a forgiare l’uomo nuovo.
Come ha spiegato Richard Wolin nel libro “The Wind from the East”, “la Cina di Mao divenne una proiezione per le surriscaldate fantasie rivoluzionarie degli studenti. Con il comunismo sovietico sostanzialmente screditato, la rivoluzionaria Cina sembrava incarnare l’ultima speranza di un’alternativa di sinistra alle dislocazioni della modernità occidentale: città sovraffollate, degrado urbano, rivolte dei ghetti, paesi industrialmente feriti, inquinamento massiccio”. Wolin ha raccontato i pensatori francesi influenti che hanno adottato il maoismo, o ciò che ritenevano maoismo. Il gruppo, cui facevano parte i redattori della rivista Tel Quel, famosi gauchistes, comprendeva il filosofo esistenzialista Jean-Paul Sartre, lo storico Michel Foucault, lo scrittore Philippe Sollers, la femminista Julia Kristeva e tanti altri. Come il regista Jean-Luc Godard, l’autore della “Chinoise”, che nel 1967 diceva che “emblematica della Rivoluzione culturale è la giovinezza: la ricerca morale e scientifica, libera da pregiudizi”. La Rivoluzione culturale cinese è stata ben lontana dall’onorare “la ricerca morale e scientifica, libera da pregiudizi”. La “rivoluzione” era in realtà il tentativo di Mao di rafforzare il proprio potere dittatoriale, mobilitando orde di giovani barbare e ignoranti contro tutto ciò che aveva designato come il “male reazionario”. La vita culturale venne devastata, assieme a milioni di vite.
“In definitiva, quello che era iniziato come un esercizio di dogmatismo rivoluzionario è stato trasformato in occidente in una celebrazione dionisiaca del pluralismo culturale e del diritto alla differenza”, scrive Wolin.
I pellegrini intellettuali si mettono a descrivere un modello superiore di civiltà dove “la legge e l’ordine sono mantenuti più da un diffuso, alto, codice morale che dalla minaccia di un’azione di polizia” (Arthur Galston), dove per i lavoratori “non c’è più bisogno di scioperare” (Basil Davidson), dove non ci sono pressioni politiche sugli intellettuali (Simone de Beauvoir), i quali anzi riferiscono “tutti che il contatto con la gente e il lavoro con la gente li rende diversi e migliori. Li, rende, in altre parole, uomini tra gli uomini e tutti aspirano alla costruzione di una nuova società socialista”.
I visitatori occidentali riferiscono di condizioni di detenzione idilliache e tornano, come James Cameron per esempio, raccontando di prigionieri che, scontata la condanna, non vogliono lasciare il carcere. Lo scrittore anglo-americano Felix Greene: “C’era una generale atmosfera di vitalità”. La sociologa inglese Barbara Wootton: “La semplicità della vita cinese ha un fascino irresistibile”. E il diplomatico canadese Chester Ronning: “Le montagne nude della Cina sono state ripopolate di foreste”.
Anche in Italia tanti scrittori celebrarono quel decennio di sangue e follia. Dario Fo, presentando nel 1971 il suo spettacolo “Morte e resurrezione di un pupazzo”, citò le massime di Mao sul “teatro rivoluzionario” delle guardie rosse: “Le arti drammatiche hanno una grande importanza nella lotta che oppone nel campo della letteratura e dell’arte il proletariato alla borghesia”. Sempre Dario Fo spiegò che “qui da noi l’uomo è una cosa, una merce (…). Da noi c’è una divisione netta fra concetti come bene, moralità e rapporti di produzione. In Cina invece il mangiare, il bere, il vestirsi, i princìpi morali sono un tutt’uno. C’è una concezione profonda della vita che determina tutto quanto. C’è l’uomo nuovo perché c’è una filosofia nuova”.
Gianni Rodari, in un reportage da Pechino su Paese Sera, scrive che i bambini cinesi sono “vispi, allegri e simpatici”. Goffredo Parise, all’inizio della Rivoluzione culturale, visita la Cina e ne ricava una serie di reportage per il Corriere della Sera, in cui descrive “operai e contadini che passeggiano in grandissimo numero, vestiti più o meno allo stesso modo uomini e donne, cioè con l’abito della nuova Cina che è quello che si vede in tutte le fotografie di Mao. Passeggiano a piedi o in bicicletta, con la sportina di plastica in mano, vagamente sorridenti e, si direbbe, estaticamente e ipnoticamente felici”.
Nel suo “La rivoluzione culturale in Cina” (Bompiani 1967), Alberto Moravia tesse l’elogio della miseria cinese: “Che cos’è la povertà cinese? E’ la condizione normale dell’uomo. L’uomo nasce sfornito di tutto, ignudo come le fiere della foresta. I cinesi, a giudicare da quello che si vede per le strade, hanno il necessario ma non il superfluo. Sono poveri, ma nessuno potrebbe mettere in dubbio che la loro umanità sia completa, cioè che le manchi qualcosa che potrebbe essere ottenuta attraverso la ricchezza”. Durante quei massacri di massa, Feltrinelli se ne esce con il libro “Dalla Cina” di Maria Antonietta Macciocchi: “Questa rivoluzione ha eliminato le élite politiche e tecnocratiche, la burocrazia, le gerarchie e i privilegi. Ha riunificato il lavoro manuale e intellettuale, le città e le campagne, ha sostituito i direttori delle fabbriche e delle università con delle direzioni collegiali, i comitati rivoluzionari”. Anche Giorgio Manganelli nel 1974 subisce il fascino di questa omogeneità rivoluzionaria: “Io non so mai con chi parlo, forse è un ministro, forse un cameriere”.
Non poteva mancare Umberto Eco, che sul Manifesto nel 1971 scrive: “Dobbiamo spiegare a tutti che i cinesi sono diversi, e per questo i borghesi non devono amarli… se esistono settecento milioni di persone in un paese povero, è impossibile che ciascuno si vesta come gli piace, perché altrimenti qualcuno andrà vestito peggio degli altri, e comunque l’uniformità del costume è anche il segno del sacrificio che tutta una comunità fa per garantire un minimo di benessere a tutti”. E il padre della riforma psichiatrica, Franco Basaglia, intervistato da Panorama nel 1974 dice: “In Cina la stragrande maggioranza dei malati è curata politicamente, con il pensiero di Mao. Una soluzione che può sembrare semplicistica a un occidentale, ma a cui comunque va riconosciuto un grosso vantaggio: quello di trattare i malati come tutti gli altri”. Intanto i cinesi riempivano i manicomi di dissidenti e prigionieri politici.
Nel 1974, Roland Barthes, gran maestro di lettere francesi e semiologo di fama mondiale, è in visita in Cina. E torna entusiasta. Il sinologo belga Simon Leys fu spietato con lui: “Barthes ci ha restituito con una dignità nuova l’antica attività di parlare per non dire nulla. A nome delle legioni di vecchie signore che ogni giorno alle cinque ciarlano nelle sale da tè un vibrante grazie”. Anche Philippe Sollers torna dalla Cina dicendo di aver visto “una vera e propria rivoluzione antiborghese”. Con i propri occhi. Nel suo racconto di viaggio, dal titolo “I cinesi”, Julia Kristeva scrive: “Mao ha liberato le donne” e “risolto l’eterna questione dei sessi”. Sarebbe negligente dimenticare i filosofi dei media del tempo, Christian e Guy Jambet Lardreau: Mao, scrivevano nel 1972, è la “Resurrezione di Cristo” e il libretto rosso “la ristampa dei Vangeli”.
Fu un’orgia di sangue e di analfabetismo. Da storico, il materialismo divenne isterico. Grazie anche alle belle guardie rosse d’occidente. Che come ha riconosciuto Jonathan Mirsky in un’autocritica per le castronerie scritte sulla Cina di Mao, collaborano attivamente a farsi mettere “l’anello al naso”.
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