Referendum, perché il sì non blocca le trivelle
- Dettagli
- Categoria: Ambiente
Se vincesse il sì estrazioni per altri 10 anni. E la Fiom nega l'emergenza lavoro. Franchigie delle compagnie, battaglie politiche e slogan: debunking del voto.
di Gea Scancarello | 13 Aprile 2016 Lettera43
Il peccato originale della disinformazione sta già nel nome: lo hanno chiamato referendum No Trivelle, ma domenica 17 aprile 2016 si vota in realtà su una cosa diversa.
Il testo del quesito chiede infatti ai cittadini se vogliano abrogare l'emendamento alla legge di Stabilità del 2016 che prevede la durata sine die («per la durata di vita utile del giacimento») delle concessioni petrolifere già esistenti entro le 12 miglia, avendo quella stessa legge proibito ogni nuova concessione futura nella fascia di mare più a ridosso della costa.
NESSUNO SMANTELLAMENTO. Non si tratta quindi di vietare le trivelle, che continueranno a funzionare appena oltre il limite delle 12 miglia.
Piuttosto, di stabilire quando potrebbero finire le attività di estrazione di gas e di petrolio già in corso a ridosso del litorale (ed eventuali esplorazioni possibili: le concessioni possono prevederne, anche se negli ultimi anni sostanzialmente non ce ne sono state).
Si tratta poi anche di chiedersi se le compagnie petrolifere debbano godere di diritti 'inalienabili' e continuativi, o se questi vadano messi in discussione pensando magari a un diverso e più trasparente sistema di concessioni e di royalty (cioè di benefici per il territorio).
Tenendo presente, in ogni caso, che anche se vincesse il sì non ci sarà alcuno smantellamento immediato, e nemmeno nel brevissimo termine: non Eni né Edison né alcuna altra compagnia sarebbe costretta a mettere per strada i propri dipendenti, sospendendo l'attività da un giorno all'altro.
ATTIVE PER ALTRI 10 ANNI. Le concessioni - 35 quelle totalmente entro le 12 miglia e altre 11 che si trovano per il 75% entro le 12 miglia; ma tre sono inattive, cinque non produttive e una sospesa: ne restano quindi 26 - arriverebbero comunque infatti fino alla naturale scadenza, continuando a operare in alcuni casi per altri 10 anni.
Nel dettaglio, 17 concessioni (per 41 piattaforme) scadono infatti tra il 2017 e il 2027; altre 9 (per 38 piattaforme) sono scadute o in scadenza ma con proroga già richiesta, il che significa che potranno lavorare per altri quattro/cinque anni (la durata standard della proroga è 5 anni).
Per fare un esempio pratico, al largo del Ravennate - uno dei punti storici della produzione italiana - la prima concessione scadrebbe nel 2024, e le altre nel 2027.
Il tempo per reimpiegare il personale esiste
I dati possono essere verificati sul sito del ministero, con pochi clic.
Eppure, come molte altre informazioni sul referendum, sono stati seppelliti dalla battaglia degli slogan, delle strumentalizzazioni e della retorica, su entrambi i fronti.
Il direttore della comunicazione di Eni, Marco Bardazzi, per 30 anni giornalista tra La Stampa e l'agenzia Ansa, ha per esempio utilizzato l'espediente de “il referendum spiegato alle mie figlie” per elencare le sue ragioni.
Che, comprensibilmente, coincidono con quelle del No: perché altrimenti si buttano via risorse e tocca aumentare le importazioni, perché le piattaforme offshore (al largo, in mare aperto) garantiscono investimenti e posti di lavoro, perché in fin dei conti l'Italia un po' di petrolio ce l'ha, e dunque perché non usarlo?
NIENTE EMERGENZA LAVORO. Ognuno elettore sceglierà per sé, ma vale ovviamente chiarire alcune cose.
La prima, appunto, è che nel caso vincesse il sì l'emergenza lavoro in realtà non sarebbe un'emergenza: cinque o 10 anni sono certamente un tempo sufficiente a pensare come reimpiegare il personale, se c'è interesse a farlo (considerando che i campi offshore oltre le 12 miglia resteranno in funzione).
Prova ne è probabilmente che i più 'talebani' tra i sindacalisti, quelli della Fiom di Maurizio Landini, si sono schierati per il sì al referendum.
L'attuale normativa, infatti, garantisce magari posti di lavoro, ma di certo garantisce e di molto anche le compagnie petrolifere già concessionarie, slegandole da limiti e vincoli (a parte gli impegni ovvi sulla sicurezza e sulla tutela dell'ambiente).
UN SISTEMA PER NON PAGARE ROYALTY. Incidentealmente, si offre loro su un piatto d'argento la possibilità di ridurre o azzerare le royalty che devono pagare allo Stato in cambio della concessione.
Nel caso di una produzione inferiore a 50 mila tonnellate (in mare), come potrebbe essere quella dei pozzi in via di esaurimento entro le 12 miglia, scattano infatti le franchigie, cioè l'esenzione dal versare allo Stato la sua parte, che normalmente si aggira intorno al 10%.
Come ha spiegato Legambiente a IlFattoQuotidiano.it, l'emendamento che il referendum vuole abrogare potrebbe insomma fare un grosso favore alle compagnie, consentendo loro di mantenere in piedi modeste attività di estrazione senza pagare alcunché.
Il referendum è soprattutto una battaglia politica
C'è poi da dire che persino i numeri - teoricamente inappellabili - si sono prestati finora a parecchie strumentalizzazioni.
Sia sulle reali risorse dell'Italia (Bardazzi segnala per esempio che «diversamente da quello che si dice in giro, l’Italia non è un Paese povero di risorse petrolifere e gas»), sia sull'importanza del contributo delle piattaforme offshore.
Tutti sono d'accordo sul fatto le attività offshore garantiscano il 10% del fabbisogno nazionale di petrolio e gas: risorse che, se non producessimo in casa, dovremmo importare.
Gli ultimi dati certi sui consumi di gas e petrolio (2014) indicano poi che usiamo annualmente circa 61,9 miliardi di metri cubi di gas e 166,43 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio (Mtep).
RISERVE INFERIORI AI CONSUMI. Le riserve certe a nostra disposizione (secondo gli standard internazionali le riserve si dividono in certe, potenziali e possibili) ammontano a 53,713 miliardi di metri cubi per il gas e 84,807 milioni di tonnellate equivalenti per il petrolio: abbondantemente inferiori dunque ai consumi annuali.
Legambiente fa poi notare che la percentuale di queste riserve all'interno delle 12 miglia - e quindi quella toccata dall'eventuale fine delle concessioni - sarebbe sufficiente a soddisfare il fabbisogno nazionale di petrolio per sole sette settimane, e quello di gas per sei mesi (se non ci fossero altri approvvigionamenti).
E ancora, nel 2014, la produzione entro le 12 miglia ha coperto per meno dell'1% i consumi di petrolio e per meno del 3% quelli di gas.
Ci si può quindi domandare se per così poco (specie rispetto al resto della produzione offshore italiana) vale la pena creare un precedente con le aziende petrolifere, garantendo loro diritti di sfruttamento eterni e senza benefici per lo Stato.
Non solo: in periodi di cricche, lobby e inchieste penali, non sarebbe necessaria e opportuna un po' più di trasparenza?
UNA SPINTA ANTI-RENZIANA.La trasparenza, però, in tutta la vicenda del referendum, e in come è stata comunicata, c'entra poco.
A partire dal nome, No Triv: non corretto. E dal fatto che anche le Regioni che hanno promosso la consultazione sono spinte da ragioni politiche almeno quanto dalla preoccupazione ambientale: basta dire che tra i firmatari non solo c'è Emiliano, governatore della Puglia che è il più fiero oppositore di Renzi, ma c'è persino il governatore ligure Toti, e in Liguria di piattaforme non se sono mai viste.
Categoria Ambiente