L’ideologia ambientalista e medievale che alimenta il circo mediatico sul petrolio
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Radici di una cultura inespressa permeata di ecologismo esasperato che ha come corollario il “no” all’industrializzazione
di Pietro Ichino PD | 08 Aprile 2016 ore 06:18 Foglio
Archiviato lo scivolone del ministro dello Sviluppo troppo loquace con il proprio partner su questioni istituzionali, resta alto il polverone contro il ministro per i Rapporti col Parlamento, per l’emendamento alla legge di Stabilità 2015 oggetto delle conversazioni intempestive della sua ex collega. Leggetelo, per favore (www.pietroichino.it/?p=39693). Dice questo: quando il governo, nel rispetto della legge, abbia deciso di autorizzare l’estrazione di petrolio o gas da un determinato sito, al governo stesso compete di autorizzare la costruzione delle infrastrutture necessarie per il trasporto del prodotto fino all’immissione nella rete di distribuzione, o al luogo di stoccaggio e poi alla raffineria, superando gli eventuali veti delle amministrazioni locali (l’anno dopo si è aggiunta la necessità del parere preventivo della regione interessata). Certo, quando presentò quell’emendamento, il governo aveva in mente soprattutto lo sblocco dell’attività estrattiva nel sito di Tempa Rossa, in Basilicata, che era in attesa dal 1989. Ma questa stessa norma – di cui si sono dotati tutti i paesi dell’occidente industrializzato – era destinata a servire in una serie indeterminata di altri casi analoghi. In sostanza, è una norma anti sindrome Nimby, cioè mirata a superare i veti meramente localistici. Quanto alla concessionaria interessata al giacimento di Tempa Rossa, la Total, essa era in attesa da molti anni di poter incominciare a far funzionare uno stabilimento sul quale aveva già investito un miliardo e mezzo. La questione dell’emendamento incriminato non ha niente a che vedere né con reati o irregolarità che la magistratura lucana ha contestato a dirigenti di quella stessa compagnia per appalti collaterali rispetto all’attività principale, né con reati o irregolarità contestati a dirigenti dell’Eni per un altro giacimento, quello di Val d’Agri, dove l’attività estrattiva è invece in corso da oltre quindici anni. La realtà è che dietro la campagna che si è scatenata contro questo emendamento c’è una cultura inespressa (ma molto diffusa) permeata di un ecologismo esasperato, che ha come corollario il “no” all’industrializzazione e in particolare alle imprese multinazionali, viste come intrinsecamente pericolose non solo per l’ambiente, ma per la democrazia stessa.
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E’ la cultura che vede con sospetto il fatto che la concessione di Tempa Rossa sia stata data alla “straniera” Total. Non importa che questa sia un’impresa europea, che gli oneri di protezione ambientale a essa imposti fin dal 2004 siano doppi rispetto a quelli imposti all’Eni in Val d’Agri, che su ogni metro cubo di gas estratto – e direttamente immesso nella nostra rete di gasdotti – essa pagherà le dovute royalties destinate per l’85 per cento alla regione lucana: la sola idea che emerge dai talk-show è che inevitabilmente la multinazionale spolperà il territorio lucano e lascerà alle sue spalle macerie, perché solo questo sanno fare le multinazionali. Questa cultura, di per sé ostativa allo sviluppo del mezzogiorno, sul terreno della politica energetica costituisce un problema per l’intero paese. Tra i suoi corollari non c’è, infatti, solo il no alle centrali a carbone, perché sono troppo inquinanti; il no alle centrali atomiche perché c’è il rischio di fughe radioattive; il no alla produzione di energia eolica, perché torri e pale deturpano il paesaggio; il no a petrolieri e petroliere, perché i primi sono tutti farabutti e le seconde ogni tanto fanno naufragio devastando mare e coste; il no alle centrali idroelettriche perché i bacini che le alimentano sommergono intere valli; il no allo shale oil (petrolio estratto da scisti), perché si rovinano le rocce sotterranee; e conseguentemente il no ai rigassificatori; il no agli inceneritori dei rifiuti, perché solo in Germania sono capaci di farli funzionare senza inquinamento e qui siamo in Italia; il no al metanodotto, perché serve per acquistare gas da Putin, inoltre può avere delle perdite e comunque rovina la spiaggia dove riemerge dal mare (copyright del presidente della Puglia, Michele Emiliano); il no all’estrazione del gas dal fondo del mare – anche se molto oltre l’orizzonte visibile dalla costa; anche se tutti gli altri paesi maggiori si avvalgono di questa risorsa a tutte le latitudini e longitudini; anche se questo consentirebbe di avere in giro meno petroliere, meno centrali a carbone, meno pale eoliche, e di acquistare meno gas da Putin e meno energia dalle centrali atomiche francesi – perché non siamo sicuri che le trivelle non possano inquinare le acque. Ora c’è anche il no all’estrazione degli idrocarburi in terraferma.
Strano paese, il nostro: gli stessi politici che contestano al governo di non occuparsi abbastanza del sud ora sono in prima fila nel rimproverargli di voler sbloccare, dopo oltre vent’anni di paralisi, l’avvio in Basilicata di uno stabilimento destinato a ridurre la nostra dipendenza energetica dall’estero, a dar vita a centinaia di posti di lavoro qualificato e a fruttare alla regione stessa e ai comuni interessati abbondanti royalty utilizzabili – se le si sa e le si vuole utilizzare così – per investimenti ulteriori. Gli stessi che, in nome dell’ecologia, contestano praticamente tutte le altre forme di produzione di energia tranne la fotovoltaica, ora contestano un impianto capace di una produzione giornaliera, direttamente in casa nostra e secondo le tecnologie più moderne, di circa 50 mila barili di petrolio e 230 mila metri cubi di gas naturale, destinati questi ultimi a essere immessi direttamente nella nostra rete di gasdotti con impatto ambientale zero.
Tutto questo è molto coerente con l’idea del ritorno alla “economia del chilometro zero”, nella quale non occorre far funzionare fabbriche che consumano molta energia – con persone che arrivano in auto o in treno – per produrre cose su scala industriale, che dunque vanno poi spedite in varie parti del mondo, magari in aereo, e che a loro volta consumeranno energia. Sì, dunque, soltanto alla cosiddetta “economia curtense”, quella artigiana e agricola che si sviluppa per intero intorno alla corte del castello. Quelli che la pensano così, però, per lo più non hanno messo bene a fuoco che tutto questo comporterebbe sostanzialmente un ritorno al Medioevo.
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