«Basta mistificazioni, il latte del resto d’Europa è più sicuro di quello italiano»

Risposta all’articolo pubblicato da “Linkiesta” lo scorso 29 marzo a firma di Fabrizio Patti, intitolato “Latte contaminato, i controlli fanno acqua….” (leggi anche in simofin categoria Ambiente)

di Roberto Brazzale* Linkiesta  Aprile 2016 - 14:35

Lettera di Roberto Brazzale, dell’omonimo gruppo caseario di Vicenza: «Le aflatossine sono un problema cronico della materia prima della pianura padana, nella Repubblica Ceca i valori limite sono inferiori. E non è vero che i grandi gruppi trasformatori abbiano meno controlli degli allevatori»

Gentile Direttore,

faccio seguito all’articolo pubblicato da “Linkiesta” lo scorso 29 marzo a firma di Fabrizio Patti, intitolato “Latte contaminato, i controlli fanno acqua: i grandi gruppi fanno quel che vogliono” dedicato al problema degli inquinamenti da aflatossine nel latte prodotto in pianura padana.

Il titolo ed alcune affermazioni degli esponenti del sindacato agricolo intervistati meritano una puntualizzazione, per evitare di giungere al paradosso per cui chi ha la responsabilità getta discredito su chi ha le carte in regola.

Va subito detto che il latte che proviene in Italia dal resto d’Europa non ha problemi di aflatossine a differenza di quello padano, per il semplice motivo che gli alimenti ivi prodotti non soffrono di inquinamenti similari a quelli padani, grazie al clima più fresco e adatto.

Le aflatossine sono una potente sostanza epato-cancerogena e genotossica per l'uomo, che si produce naturalmente quando la pianta foraggera è sottoposta a condizioni di stress idrico caratteristiche delle regioni calde ed umide, come la pianura padana. Le condizioni climatiche tipiche di una regione sono decisive per individuare il grado di probabilità del rischio di sviluppo e contaminazione. Dove il clima è ottimale, la piovosità naturale e le temperature estive più miti evitano ai foraggi gli stress idrici dai quali si produce la pericolosa tossina. In quelle regioni, il rischio di contaminazione è irrilevante o nullo.

«Il latte che proviene in Italia dal resto d’Europa non ha problemi di aflatossine a differenza di quello padano, per il semplice motivo che gli alimenti ivi prodotti non soffrono di inquinamenti similari a quelli padani, grazie al clima più fresco e adatto»

 

La nostra azienda ne ha una esperienza diretta da molti anni visto che ha sviluppato una filiera di produzione di latte in Repubblica Ceca costituita da circa 80 fattorie, per un quantitativo di circa mezzo milione di litri al giorno, trasformato in formaggi di alta qualità nel nostro caseificio di Litovel, in Moravia (Repubblica Ceca). Nel disciplinare di questa filiera, per garantire in modo assoluto il consumatore, i valori massimi di aflatossine sono stati fissati sul latte alla stalla in misura dieci volte più restrittiva di quelli vigenti in Italia (0,005ppb anziché 0,05ppb), e le soglie di attenzione sui formaggi di venti volte (0,025 ppb anziché 0,5ppb): nessun campione supera quei limiti. Le numerose analisi che effettuiamo di routine danno sempre lo stesso risultato: totale assenza di tracce.

Le aflatossine, ripetiamo, sono un problema cronico della materia prima della pianura padana, assente nella materia prima europea importata in Italia dal resto d’Europa.

È per questo che ci appare sconcertante che, nel momento in cui emergono gravissimi comportamenti di suoi associati e si levano seri dubbi sulla attendibilità del sistema italiano di controlli, il responsabile latte di Coldiretti Prandini non trova di meglio che affermare di “non sapere nulla del latte che proviene dall’Est Europa” (cos’è l’Est Europa?), lanciando il gratuito sospetto che il latte importato possa avere problemi. È rara una disonestà intellettuale maggiore.

 

«La nostra azienda ha sviluppato una filiera di produzione di latte in Repubblica Ceca costituita da circa 80 fattorie e produce formaggi di alta qualità nel caseificio di Litovel, in Moravia. I valori massimi di aflatossine sono stati fissati sul latte alla stalla in misura dieci volte più restrittiva di quelli vigenti in Italia»

Non solo Prandini non ammette le gravi problematiche emerse in pianura padana, ma cerca di confondere le idee accusando maliziosamente la materia prima che le carte in regola le ha strutturalmente. Volendo essere precisi, ci si potrebbe inoltre chiedere quale titolo possegga Prandini, semplice allevatore e sindacalista, per “sapere” del latte regolarmente commercializzato dai suoi colleghi e concorrenti in Italia, deficitaria per circa il 35% del fabbisogno, visto che quel compito è svolto con rigore da chi di dovere, cioè dalle imparziali autorità veterinarie e sanitarie pubbliche sia del paese di origine che di quello di destinazione e, semmai, agli acquirenti del prodotto stesso.

A sua volta, nell’articolo citato, il vice presidente di Confagricoltura Ferrarese, lamenta che sui caseifici non ci siano gli stessi controlli che ci sono sugli allevatori. Non solo ciò non è vero, visto che i caseifici eseguono moltissimi controlli per obbligo e volontariamente, per i propri rigorosi standard di qualità, ma sarebbe altresì perfettamente logico.

È l’allevatore, infatti, che decide che alimenti usare nella razione e soltanto lui li può conoscere e selezionare, determinando eventuali inquinamenti. Solo in stalla può avvenire l’inquinamento del latte, a causa dell’uso di alimenti (di norma, granella di mais prodotta in proprio). Attraverso le analisi oggi è molto agevole accertare la salubrità degli alimenti ed, eventualmente scartarli. Il controllo e la selezione dei foraggi impiegati nell'alimentazione del bestiame è un dovere dell’allevatore, che è il responsabile del prodotto inquinato e della sua messa in commercio.

È, pertanto, l’allevatore e non l’acquirente che ha il preciso obbligo di non superare nel latte i limiti previsti dalla normativa (0,05 ppb).

Sugli acquirenti del latte grava l’obbligo di eseguire sistematici controlli a campione per monitorare eventuali valori anomali sui valori di raccolta, al fine di attivare, nel caso, le procedure di segnalazione dell’allevatore fuori norma alle autorità sanitarie, le quali disporranno controlli specifici alla stalla.

«È sconcertante che, nel momento in cui emergono gravissimi comportamenti di suoi associati e si levano seri dubbi sulla attendibilità del sistema italiano di controlli, il responsabile latte di Coldiretti Prandini non trova di meglio che affermare di “non sapere nulla del latte che proviene dall’Est Europa”»

È facile capire come il controllo decisivo sulle aflatossine vada fatto alla stalla poiché normalmente la raccolta a mezzo di autocisterne provoca una inevitabile miscelazione del latte di diversi fornitori, provocandone quella diluizione che ne fa venir meno la pericolosità riducendone la concentrazione e rendendo impossibile per il compratore individuare eventuali consegne irregolari. L’industria, perciò, esegue le analisi in cooperazione con le autorità sanitarie per segnalare eventuali valori oltre la “soglia di attenzione”; essa subisce solo danno ad acquistare latte con valori irregolari, ed è vittima di eventuali frodi commesse dagli allevatori, come la cronaca ha recentemente mostrato (la diluizione costituisce comportamento vietato per il produttore di latte e frode penalmente rilevante).

A differenza di quanto affermato da Ferrarese, l’attenzione andrebbe semmai posta non tanto sull’industria, che è controparte nel contratto di acquisto del latte e priva di interesse alla complicità, bensì sulle cooperative agricole, di trasformazione o raccolta, in quanto esse ritirano il latte dei propri stessi soci. La cronaca ha dimostrato che proprio all’interno delle cooperative è più facile che si creino situazioni di tolleranza verso soci/produttori non in regola.

Cercare, da parte del sindacato agricolo, di denigrare l’industria di trasformazione, ed in particolare “ i grandi gruppi”, è comportamento che appartiene al peggior repertorio di quelle associazioni.

La verità inconfessabile è che il sindacato agricolo italiano, di fronte ai gravissimi problemi di salubrità, sostenibilità ed economicità delle produzioni, continua a rifiutare le soluzioni che la scienza e la tecnologia mettono a disposizione, ad esempio attraverso la ricerca e le tecnologie transgeniche. In tal senso il prof. Umberto Veronesi e la sen. prof. Elena Cattaneo, hanno nel recente passato lanciato numerosi allarmi e circostanziate denunce, rimasti inascoltati.

Il sindacato ancora una volta preferisce insistere sulla propaganda, deviando l’attenzione sulla denigrazione del prodotto importato che, di norma, non ha la possibilità di difendersi, dato che il mondo agricolo gode di un quasi monopolio sull’informazione e di un affidamento quasi totale da parte del consumatore, certamente mal riposto.

«Cercare, da parte del sindacato agricolo, di denigrare l’industria di trasformazione, ed in particolare “ i grandi gruppi”, è comportamento che appartiene al peggior repertorio di quelle associazioni»

«Il problema delle aflatossine nella pianura padana c’è ed è serio. Le attuali misure sono emergenziali e volte non a risolvere gli inquinamenti alla radice, quanto a gestire situazioni di emergenza che si ripeteranno regolarmente in futuro»

A fare le spese di questa mistificazione sistematica, infatti, non sono soltanto i concorrenti ma, soprattutto, i consumatori, cioè i cittadini, ai quali viene assai spesso taciuta la reale portata dei problemi o viene somministrata una versione dei fatti alterata e, come detto, mistificata.

Il problema delle aflatossine nella pianura padana c’è ed è serio. Le attuali misure sono emergenziali e volte non a risolvere gli inquinamenti alla radice, quanto a gestire situazioni di emergenza che si ripeteranno regolarmente in futuro.

Se soltanto una minima parte delle energie e delle risorse che vengono impiegate per l’autocelebrazione, spesso immotivata, della superiorità delle nostre materie prime agricole o per promuovere modelli di agricoltura che si fondano sull’ideologia come il cd.“biologico” o, addirittura, sulla superstizione come il cd. “biodinamico”, fossero impiegati per risolvere problemi come quello delle aflatossine, potremmo forse sperare che il consumatore possa ritrovare anche nel prodotto italiano della stessa salubrità che caratterizza, naturalmente, i prodotti del resto d’Europa.

Cordiali saluti,

Roberto Brazzale

*Gruppo caseario Brazzale - Vicenza

Lasciamo a Ettore Prandini, presidente di Coldiretti Lombardia, e a Piergiovanni Ferrarese, membro del Comitato di presidenza nazionale dei Giovani di Confagricoltura, rispondere, se vorranno, alle argomentazioni che li tirano in ballo riguardo alla qualità del latte importato e ai controlli dei grandi gruppi. Mi limito a osservare che Prandini ha tenuto una posizione dura verso gli allevatori di cui si dimostrasse la colpevolezza e che Ferrarese su questioni come gli Ogm e la necessità di interventi radicali contro le aflatossine ha posizioni simili a quelle di Brazzale. Nell’articolo non sono sminuite le responsabilità degli allevatori coinvolti nei casi di cronaca, sia l’ultimo a Brescia, sia quelli degli anni scorsi a Parma e nel Friuli Venezia Giulia. Nella realizzazione dell’articolo non sono stati sentiti solo allevatori, ma due consorzi di produttori (Grana Padano e Parmigiano Reggiano) e sono stati interpellati, senza risposta, altri due gruppi caseari, quali la Centrale del Latte di Brescia e il gruppo Ambrosi, oltre che l’Istituto zooprofilattico di Lombardia e Emilia Romagna.

Fabrizio Patti

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