Slow food, slow Italy. Il nanismo culturale del modello Petrini ci costringe a urlare, sul caso Expo
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viva McDonald’s- Negli ultimi sei anni la quota di mercato dell’export agroalimentare del nostro paese si è contratta passando dal 3,4 per cento del 2008 al 2,8 del 2013 e l’incapacità di fare squadra
di Claudio Cerasa | 20 Maggio 2015 ore 19:30 Foglio
Carlin Petrini soffre tantissimo e si dispera da matti quando pensa all’Expo e quando pensa a quel drammatico contesto in cui – ah, la globalizzaziò – migliaia di persone discutono di cibo senza coinvolgere i contadini e per di più alla presenza di un orrendo padiglione targato McDonald’s. “E’ un circo Barnum – ha detto il fondatore di Slow Food – all’Expo hanno dimenticato i contenuti”. Se proprio di contenuti dobbiamo parlare, l’occasione della visita all’Expo di Petrini avrebbe potuto rappresentare un’occasione per capire che la vera ragione per cui il modello agroalimentare italiano non riesce a essere sullo stesso livello degli altri paesi non è perché ci si dimentica di portare i contadini all’Expo (dài, Carlin) ma è perché ci si dimentica che il nostro limite è quello di essere ancora schiavi del modello Slow Food: piccolo uguale bello. Ripasso per il compagno Carlin.
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Negli ultimi sei anni la quota di mercato dell’export agroalimentare del nostro paese si è contratta passando dal 3,4 per cento del 2008 al 2,8 del 2013 e l’incapacità di fare squadra, di mettere insieme esperienze, di fare massa critica, di archiviare la cultura del protezionismo e di riuscire, banalmente, a soddisfare la domanda di made in Italy la si può leggere in ulteriori dati che ci permettiamo di inoltrare a mister Slow Food. Mai sentito parlare di “Italian Sounding”, Carlin? Mai sentito parlare di tutti quei prodottti alimentari che con l’Italia non hanno nulla a che vedere – il Parmesan statunitense, le penne Napolita, il Brunetto, il Napoli Tomato, il Daniele Prosciutto, il Parma Ham, la Tinboonzola australiana, e così via – e che però giocando sull’evocazione di una sensazione di italianità riescono a vendere laddove si trova una domanda che c’è e un’offerta che manca? Lo sa, Carlin, che a livello internazionale si stima siano falsi più di due prodotti “italiani” su tre in commercio? E lo sa, Carlin, che l’Italia, sull’agroalimentare, esporta un terzo dell’Olanda, la metà della Germania e persino meno del Belgio? La colpa non è di Slow Food, ovvio, ma il principio del piccolo è bello ha contribuito a far sì che l’Italia – lo sa, Carlin? – sia composta da imprese che nel settore dell’agroalimentare superano i 250 addetti soltanto 112 volte (contro le 261 della Francia e le 544 della Germania). Risultato: Il fatturato medio per ogni impresa è di 5.110.000 di euro in Germania, 3.366.000 in Spagna, 2.654.000 in Francia e solo 2.042.000 in Italia. E naturalmente la colpa non è di Carlin Petrini, ci mancherebbe, ma è di tutti coloro che hanno contribuito a imporre nella cultura del nostro paese una dottrina targata Coldiretti-Slow Food, che ha fatto della bottega del contadino un punto di arrivo e non solo una base di partenza per l’industria del cibo italiana. Petrini dimentica di ricordare questo dettaglio. E all’interno di questa cornice è difficile non concordare con chi (mercoledì lo ha fatto McDonald’s con una nota ufficiale) accusa il fondatore Slow Food di essere “il portavoce di una retorica terzomondista che non dimostra rispetto per la libertà e la capacità di scelta delle persone”.
Caro Petrini, spiace, ma se l’industria agroalimentare italiana funziona così così e non è competitiva in giro per il mondo non è perché ci sono pochi contadini all’Expo è perché la retorica del piccolo è bello ha esportato un modello culturale che contribuisce a fare dell’Italia un paese abitato da piccoli gnomi.
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