Il grano nel deserto, così le aziende straniere danno l’assalto alle risorse dell’Africa, agricoltura ma anche foreste
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L’accordo tra il Governo algerino e Baladna, annunciato nel luglio 2024, prevede la coltivazione di foraggio e l’allevamento di 280mila vacche
Giuseppe Gagliano 5 Marzo 2025
Nel cuore dell’Africa settentrionale, la parola d’ordine è “sicurezza alimentare”. Ma dietro lo slogan si nasconde una realtà ben più complessa, fatta di concessioni fondiarie, sfruttamento delle risorse idriche e strategie di investimento che sembrano favorire più le multinazionali che le popolazioni locali. Algeria ed Egitto sono in prima linea in questo processo, con Governi che incentivano massicci progetti agricoli nel deserto, spesso in collaborazione con aziende straniere. Tra gli investitori principali emergono colossi del settore agroalimentare come la qatariota Baladna e l’italiana BF Spa, entrambe protagoniste di operazioni di vasta portata.
Algeria: il business lattiero-caseario di Baladna
L’accordo tra il Governo algerino e Baladna, annunciato nel luglio 2024, prevede la coltivazione di foraggio e l’allevamento di 280mila vacche su 117mila ettari nella provincia di Adrar. Secondo l’ONG indipendente Grain (grain.org), il progetto nasce per ridurre la dipendenza dell’Algeria dal latte in polvere importato, ma presenta criticità ambientali enormi. Per alimentare l’azienda sarà necessario un consumo idrico stimato in 1.700 miliardi di litri, prelevati da una falda acquifera non rinnovabile. Il Governo algerino e Baladna promuovono il progetto come una pietra miliare della sicurezza alimentare nazionale, ma la realtà potrebbe essere ben diversa. Come sottolinea Grain, dietro le dichiarazioni rassicuranti si cela un’operazione finanziaria volta a garantire un “significativo ritorno sugli investimenti” per gli azionisti di Baladna, più che per il popolo algerino.
L’espansione italiana: BF Spa e il Piano Mattei
Accanto a Baladna, l’italiana BF Spa gioca un ruolo di primo piano nell’espansione agricola algerina. Definita da Altreconomia il “sovrano” dell’agricoltura italiana, BF Spa ha ottenuto due importanti concessioni nel deserto: una di 900 ettari nella provincia di Ouargla e un’altra ben più estesa, di 36mila ettari, a Timimoun. L’azienda prevede di coltivare grano, lenticchie e fagioli, e di costruire un pastificio, mentre il Governo algerino ha garantito licenze per lo scavo di pozzi per l’irrigazione.
La gestione di queste attività è affidata a BF El Djazair Spa, una joint venture tra BF e il Fondo nazionale di investimento algerino, con l’azienda italiana che detiene il 51% delle azioni. Ma dietro il linguaggio degli affari si nasconde una verità meno edulcorata: secondo Grain, il progetto non è pensato per rafforzare la sicurezza alimentare dell’Algeria, bensì per ampliare la capacità produttiva di BF all’estero e garantire una fornitura stabile di grano per le sue fabbriche italiane di pasta e cous cous. Circa il 30% della produzione sarà destinato all’esportazione in Italia, mettendo in dubbio il reale beneficio per la popolazione locale.
Egitto: terra fertile per l’accaparramento di risorse
Il fenomeno non si ferma all’Algeria. Anche l’Egitto, primo importatore mondiale di grano, ha avviato progetti su larga scala. Il governo di Abdel Fattah al-Sisi ha lanciato il programma “Future of Egypt”, con l’obiettivo di convertire 1,6 milioni di ettari di deserto in terreni agricoli. Tuttavia, la gestione di queste terre rimane opaca, e l’impatto sul deficit idrico del Paese è preoccupante: ogni anno l’Egitto registra un deficit di sette miliardi di metri cubi d’acqua. Anche qui BF Spa entra in gioco come protagonista: una delle iniziative pilota del Piano Mattei in Egitto prevede la sua partecipazione alla produzione di grano, soia, mais e girasole su 15mila ettari nella regione di Dabaa, attraverso una joint venture con la società egiziana Mostaqbal Masr.
Land grabbing: la nuova corsa all’oro
Questi progetti si inseriscono in un trend più ampio noto come “land grabbing”, l’accaparramento di terre su larga scala da parte di aziende e Governi stranieri. Secondo Land Matrix Initiative (landmatrix.org), il fenomeno riguarda oltre 40 milioni di ettari di terreno in Africa, con 1.219 accordi di acquisizione o affitto fondiario. L’Italia non è estranea a questa dinamica: con 59 accordi stipulati da aziende italiane, per un totale di 1,6 milioni di ettari a livello globale, il nostro Paese si colloca tra gli attori principali dell’espansione agricola all’estero.
Ma il land grabbing non si limita all’agricoltura. Un’ampia fetta degli accordi riguarda il settore forestale: quasi la metà delle superfici oggetto di contratti in Africa è destinata alla produzione di legname. Un caso emblematico è quello del gruppo Sefac, attivo in Camerun, che possiede cinque licenze per la gestione di 405mila ettari di foresta. Secondo Altreconomia, Sefac avrebbe un accordo di vendita esclusiva con la società italiana Vasto Legno, che commercializza legname africano dal XIX secolo.
Le ONG internazionali, tra cui Greenpeace e Survival International, denunciano da tempo le conseguenze di questi progetti sulle popolazioni indigene, come i Baka del Camerun. Le loro terre ancestrali vengono trasformate in concessioni forestali senza consenso, costringendoli ad abbandonare il loro stile di vita tradizionale. L’apertura di nuove strade per il trasporto del legname, inoltre, facilita anche il traffico di specie selvatiche, con effetti devastanti sull’ecosistema.
Tra sicurezza alimentare e strategia commerciale
Mentre i Governi e le aziende continuano a presentare questi progetti come la chiave per la sicurezza alimentare dell’Africa, cresce il sospetto che la vera posta in gioco sia il controllo delle risorse e l’espansione dei colossi agroalimentari. L’accaparramento delle terre e delle risorse idriche pone interrogativi etici e ambientali che non possono essere ignorati. In un continente dove l’84% delle aziende agricole possiede meno del 12% delle terre, la disuguaglianza fondiaria rischia di aggravarsi, a discapito delle comunità locali.