Biohacking. Lo status della magrezza La capacità di rinunciare al cibo è il nuovo status symbol e come tale va mostrato

Ma c’è anche un risvolto collettivo che ha a che fare con l’evoluzione della società e con le sue contraddizioni

9.6.2024 Anna Prandoni, linkiesta.it lettura3’

Le diete estreme sono l’ultimo modo a disposizione dei grandi ricchi per segnalare la loro ricchezza e il loro status.

E l’ultimo segno di vera ricchezza pare essere proprio la capacità di rinunciare completamente al cibo. Mangiare, in effetti, tradisce i bisogni umani primordiali di una persona, e in un’epoca ossessionata da quella che gli americani chiamano “auto-ottimizzazione”, non mangiare suggerisce che una persona è riuscita ad andare oltre i suoi bisogni fisici e ha raggiunto la padronanza totale del proprio corpo, e della propria mente. Questa padronanza di sé pare portare a una maggiore capacità di efficienza e concentrazione.

 

 

È un po’ come succede con la meditazione e il digiuno per i buddisti, ma con uno scopo molto meno ideale. E questa negazione autoinflitta è anche esposta come un trofeo, come se fosse uno status symbol da condividere: il co-fondatore di X, Jack Dorsey, una volta ha ammesso di digiunare per ventidue ore al giorno, mentre il multimilionario Bryan Johnson ha confessato di digiunare per ventitré ore. Sarebbe curioso scoprire che cosa mangiano nelle ore libere.

Molti altri professionisti della Silicon Valley puntano su frullati sostitutivi dei pasti come il Soylent o Huel con il pretesto di “biohacking”. Questo termine, sempre più di moda, mette insieme le parole bio – vita, e hack – controllo, codifica, ed è un approccio di vita che vuole sostanzialmente “hackerare la biologia”, resettare il corpo per dare nuova linfa alla mente. Il biohacking si prefigge di modificare la chimica e la fisiologia degli umani attraverso la scienza, l’auto-sperimentazione e l’apprendimento, per massimizzare le capacità cognitive e fisiche. Il digiuno è una delle parti fondanti di questa pratica. Visto in quest’ottica, il mancato nutrimento ha una finalità diversa da quella di controllare il proprio bisogno e sentirsi super uomini, staccati dalle necessità fisiologiche.

Ed è diverso anche dall’approccio delle modelle: il video della routine mattutina di Bella Hadid ha mostrato al mondo come la modella facesse colazione con oltre venti diversi integratori e vitamine e solo un boccone di un croissant dall’aspetto triste. Ma c’è un altro tema che si intreccia fortemente a questo nuovo status symbol, ed è quello tanto discusso dell’Ozempic, il farmaco dimagrante che tanto fa parlare di sé e che agisce sopprimendo la fame. Probabilmente i ricchi non sentono i morsi della fame anche per merito dell’accessibilità a questo farmaco?

Il rapporto di una persona con il cibo ha sempre rivelato molto sulla sua classe di appartenenza, e nel corso della storia la magrezza o la grassezza sono state indubbiamente segni di povertà e ricchezza.

Il re inglese Enrico I morì dopo aver mangiato “un eccesso di lamprede”. Nel Regno Unito, le connotazioni portate dai diversi prodotti alimentari sono sempre state “fortemente dipendenti dalla scarsità”, spiega Pen Vogler, autore di “Stuffed: A History of Good Food and Hard Times in Britain”. «La vecchia amica degli economisti, la curva di domanda e offerta, è un indicatore abbastanza affidabile di quali alimenti vengono utilizzati per segnalare uno status elevato: carne di cervo e selvaggina, la cui vendita era altamente controllata, dall’invasione normanna in poi; le spezie nell’Inghilterra medievale e Tudor; la cucina francese nel diciannovesimo secolo», afferma. «Per secoli tutto ciò che è stato importato ha avuto uno status elevato – e ancora oggi riconosciamo la classe media grazie al suo consumo di cibi importati come l’avocado o la quinoa – che sono invece cibi contadini nei loro Paesi di origine». E se un tempo il grasso era un simbolo di ricchezza e mancanza di bisogni – e quindi desiderabile, e la magrezza era associata alla povertà – e quindi indesiderabile, oggi alcune tendenze si sono invertite.

La nostra società incentrata sul lavoro lascia poco tempo alle persone – in particolare a quelle a basso reddito – per pianificare, acquistare e cucinare cibi sani o per fare esercizio fisico e questo è uno dei motivi principali per cui il grasso è ora maggiormente associato alle classi lavoratrici. Oggi, nonostante i migliori sforzi del movimento “body positivity”, la cultura occidentale continua a valorizzare la magrezza. Si tratta di una tendenza che ha avuto un impatto devastante sulla salute pubblica: i disturbi del comportamento alimentare coinvolgono oltre 55 milioni di persone nel mondo, di cui tre milioni in Italia, l’otto-dieci per cento delle ragazze e lo 0,5-uno per cento dei ragazzi.

La società non ha mai apprezzato di più la magrezza, eppure non è mai stata così lontana dal raggiungerla. Siamo circondati da così tanto cibo che è più difficile non mangiare che mangiare. Tante cose spingono il cibo verso di noi: marketing, social media, pubblicità televisiva, app di consegna, offerte di pasti al supermercato, cibo ultra-processato a basso costo. Tutto è progettato per farci mangiare di più. Le cose sono molto diverse per le élite, perché i grandi ricchi non sono obbligati a mangiare cibo obesogeno e hanno accesso a buon cibo fresco, istruzione, spazio, tempo, rispetto sociale. In fondo, anche per il cibo buono e sano, basta pagare. E poi, c’è un bisogno culturale di “nutrimento” che le classi ricche possono sublimare con altro: se l’unica alternativa alla felicità è il cibo grasso e che riempie, difficilmente i più poveri riusciranno a rinunciarvi.

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