Pianeta. Addio mezze stagioniI Il ritardo del foliage è un sintomo evidente del cambiamento climatico
- Dettagli
- Categoria: Ambiente
Uno scarso fogliame autunnale riduce la possibilità di sopravvivenza degli alberi durante l’inverno, quando il processo di evapotraspirazione diventa più difficile
17.11.2023 Ludovica Rossi, linkiesta.it lettura4’
È ormai novembre inoltrato, eppure le tonalità calde e variopinte che di solito caratterizzano questo periodo dell’anno hanno ceduto il posto alla monocromia monotona del verde, che ancora campeggia dominante. Le sfumature degli alberi sono spente, i colori delle foglie poco luminosi. Non è solo il ritratto di un autunno sottotono, ma il sintomo evidente di un cambiamento che si esprime anche nell’alterazione dei ritmi stagionali abituali. Negli ultimi anni, infatti, in numerose zone del mondo il foliage autunnale è iniziato dopo, riducendo di molto la sua durata. E il motivo di questo ritardo è la crisi climatica.
Perché il foliage arriva più tardi e dura meno
La riduzione del foliage è l’esito di «uno scontro tra titani: da un lato estati sempre più lunghe, che ritardano il processo, dall’altro l’inverno che di colpo chiede il conto», spiega a Linkiesta Francesco Avanzi, idrologo e ricercatore della Fondazione Cima. Uno degli elementi fondamentali per garantire la vita della pianta, oltre all’acqua e all’ossigeno, è il sole, che fornisce la radiazione.
Il processo del foliage poggia proprio su questa dinamica: quando c’è meno luce e fa più freddo, le foglie tendono a diventare rossastre e a cadere. Al contrario, il mese di ottobre ha registrato quest’anno le temperature più alte di sempre, come dimostrano i dati forniti dall’agenzia europea Copernicus, e questo ha allungato il ciclo vitale degli alberi.
Avere un foliage ridotto, però, significa rinunciare a un meccanismo fondamentale che permette alla vegetazione di sopravvivere durante l’inverno, quando il processo di evapotraspirazione diventa più difficile. Una pianta che non sperimenta il foliage vive più a lungo e, per farlo, necessita di più acqua.
«Nelle zone aride e semi-aride del pianeta, incluso il bacino del Mediterraneo, la stragrande maggioranza dell’acqua piovana è utilizzata dalle piante e non da noi – prosegue il ricercatore –. Questo significa che se si prolunga il loro ciclo vitale per tre o quattro settimane in più del normale, necessiteranno di più risorse idriche, sottraendole al nostro utilizzo».
In momenti di siccità come quelli sperimentati negli ultimi tempi questo genera poi uno stato di stress per gli alberi, che non riuscendo a soddisfare i propri bisogni entrano in grossa difficoltà. Esistono specie, come l’ulivo o il pino, che hanno una grande capacità di resilienza e che riescono perciò a sopravvivere anche a lunghi periodi di siccità: «Esemplari di questo tipo saranno avvantaggiati dal punto di vista evolutivo, ma non per tutti è così. Molti altri non possiedono questa capacità e, nel momento in cui gli mancherà l’acqua sotto le radici, moriranno», dice Avanzi.
Se piove non significa che la siccità è finita
Le piogge delle scorse settimane non rappresentano la fine dell’emergenza. Come spiegavamo a giugno, il concetto di “siccità finita” è fuorviante: «Siccità non vuol dire che non piove, ma che piove meno del solito». Avanzi spiega infatti che il problema necessita di molto tempo prima di essere superato: temperature più elevate, piogge più concentrate in brevi periodi e uno sfruttamento idrico maggiore da parte degli esseri umani renderanno l’acqua una risorsa sempre più scarsa in futuro, «anche se poi si verificano dei periodi di forti precipitazioni. Quando torna, la pioggia lo fa sotto forma di alluvioni e questo non risolve minimamente il problema, anzi: è l’altra faccia di una stessa medaglia».
Il clima temperato tipico dell’emisfero nord è sempre stato caratterizzato da una certa regolarità e prevedibilità: inverni freddi e poco piovosi, efficaci per ottenere l’accumulo nivale, seguiti da piogge primaverili necessarie per il superamento della stagione estiva, a sua volta alternata ad autunni piovosi.
Tuttavia, questo trend rischia adesso di essere compromesso a causa del cambiamento climatico, con conseguenze estese a ogni ecosistema: «Gli scenari ci avvisano di prepararci a transizioni diverse, con sempre più autunni secchi e caldi, alternati a pochi troppo piovosi». Uno squilibrio dannoso per tutti: «Come noi, anche le piante sono messe a dura prova. Troppa o troppo poca acqua è un problema in entrambi i casi: alle piantagioni ne serve poca e al momento giusto».
Un cambiamento non solo climatico
Il clima che cambia non altera soltanto la scala graduata, ma stravolge ritmi e abitudini, costringendo a un ripensamento che si declina su più fronti e oltrepassa i confini eco-biologici. La trasformazione della stagionalità innesca infatti una catena di cambiamenti, che spaziano dalle abitudini alimentari al settore del commercio, da quello della moda al turismo.
In molte zone del mondo, per esempio, lo spettacolo naturale offerto dal foliage costituisce un’attrazione capace di attirare numerosi turisti: oltre a consolidare il senso dell’autunno rappresenta quindi un elemento economico importante che, a causa delle dinamiche in corso, rischia però di tradursi in una perdita.
Qualcosa di analogo accade in Giappone con la fioritura dei ciliegi, attesa da molti visitatori come uno dei momenti più piacevoli dell’anno: «Anche in questo caso, come in quello del fogliame autunnale, le temperature più miti e protratte più a lungo alterano i ritmi abituali e i fiori sbocciano con settimane di anticipo». Per Avanzi, «il fatto di “non avere più le mezze stagioni” esercita in realtà un impatto molto concreto sulla cultura e sul nostro modo di vivere con il territorio».