La verità sull’olio di palma

Da Kuala Lumpur. L’olio di palma va guardato dall’alto

NOV 25, 2016 26 GIUSEPPE DE LORENZO Giornale

Da Kuala Lumpur. L’olio di palma va guardato dall’alto. Dal cielo di Kuala Lumpur. Solo sorvolando le centinaia di migliaia di ettari di terra dedicati alla sua coltivazione si capisce che la Malesia è il fortino della produzione mondiale di questo alimento così controverso. Il secondo produttore al mondo dopo la vicina Indonesia: distese immense, campi regolari e simmetrici, belli come sono belle le colline del centro Italia inondate di olivi e di viti. Solo immensamente più grandi e produttivi: dalla Malesia parte il 39% dell’olio verso le industrie mondiali che producono cibo, dentifrici, detergenti, cosmetici e prodotti farmaceutici. Ed è su questo fortino in Asia orientale che si combatte l’assedio più cruento di tutti: quello del boicottaggio.

Da qualche anno infatti l’olio di palma è finito sul banco degli imputati con l’accusa infamante di essere il più dannoso tra gli ingredienti alimentari che arrivano sulle nostre tavole. Un’insinuazione portata avanti dai produttori di oli concorrenti, Ong in cerca d’identità e partiti politici orfani di battaglie ideologiche da combattere. Accuse («è cancerogeno», «causa il disboscamento del pianeta») che però non corrispondono al vero.

 Eppure in Europa si è ormai creato un mito negativo duro da abbattere. «Non capisco per quale motivo ce l’abbiate tanto con la palma», dice Yusof Basiron, Ceo del Malaysian Palm Oil Council. «Qui migliaia di persone vivono grazie a questo settore economico che con i vostri boicottaggi rischia di avere ripercussioni non indifferenti». Già, perché per i malesi l’olio di palma è soprattutto fonte di sostentamento: tra industria e indotto lavorano più di 860mila persone per un mercato che vale 8,1 miliardi di dollari e si è espanso, appunto, a macchia d’olio. Nel 1960 il governo avviò una massiccia opera di conversione agricola nazionale dal caucciù alla palma. «Ora non possiamo più farne a meno», ammette candidamente Sabran, contadino di 67 anni, uno dei circa 300mila piccoli agricoltori che oggi possiedono il 40% dei terreni coltivati a olio di palma, con appezzamenti tra i 4 e i 40 ettari che producono circa 18 milioni di tonnellate di olio all’anno. Dal 1956 la Federal Land Development Authority (Felda), nata per aiutare lo sviluppo della aree rurali, organizzando i contadini in cooperative, ha trasformato le baracche nelle piantagioni in villaggi con case, negozi e luoghi d’aggregazione. Poi alcuni decenni fa gli agricoltori hanno comprato i terreni su cui lavoravano grazie a prestiti agevolati dallo Stato: un investimento che in 50 anni ha abbattuto il tasso di povertà dal 50% al 5%.

Nella sua casa col giardino nello Stato del Perak, Sabran sorride mentre spiega che grazie alle palme è riuscito a far studiare i suoi sette figli. «Prima eravamo poveri, ora non più. Ogni ettaro mi frutta circa 2.000 dollari all’anno». Una pianta vive 25-30 anni e produce in un anno circa 20 caschi da 30 kg l’uno. Quando poi diventa improduttiva viene abbattuta con una ruspa e sostituita da un innesto più giovane. A conti fatti le famiglie con meno di 5 ettari possono sperare in un reddito che oscilla tra i 4mila e i 12mila dollari, quando il salario medio annuale non supera i 2.400. E si tratta di un mercato che rende bene anche ai lavoratori non qualificati. Perry Yadi, operaio 30enne indonesiano, prende un frutto arancione dal nocciolo bianco caduto in terra: «Quando si staccano vuol dire che è l’ora di raccogliere», spiega imbracciando un lungo bastone e tagliando con due colpi secchi il casco. Con 8 ore di lavoro al giorno per l’intera settimana, Yadi riesce a portare a casa fino a 2mila ringgit al mese. Circa mille in più dello stipendio minimo. Senza contare le ferie e la giornata di riposo garantite. «Boicottare l’olio di palma ci farà del male – conclude Sabran -. Ricordatevi che anche noi dobbiamo poter mettere il riso in tavola».

Nelle tavole della Malesia peraltro l’olio di palma non raffinato viene usato quotidianamente per condire l’insalata e cuocere dei dolciastri popcorn. Nessuno crede sia dannoso e nessuno si sognerebbe di farne a meno. Un principio che vale a Kuala Lumpur, città con l’aspirazione di somigliare a una capitale occidentale, così come a Sandakan, piccola e selvaggia cittadina sul Borneo dai vicoli stretti e le strade dissestate. Qui, e non è poco, si respira l’aria salubre della foresta pluviale. In quest’isola la Malesia conserva la maggior parte delle terre coperte da foresta, nonostante i detrattori denuncino l’impatto ambientale catastrofico della deforestazione. Ma non è così. Oggi il 67,5% delle terre malesi è ancora coperto da foresta tropicale e solo il 16% da palma da olio. Alberi, scoiattoli, oranghi: tutto è ancora in vita. Anzi: negli ultimi 15 anni la superficie forestale è aumentata, invece di ridursi. All’agricoltura è destinato appena il 23,9% della superficie totale (in Italia il 46,3%) e il governo si è impegnato a preservarne almeno il 50% sotto foresta con 5 milioni di ettari di aree protette. Per fare un confronto, l’Italia ha solo il 31% di zone boschive, la Gran Bretagna appena il 12%. Perché criticare gli altri se poi l’Europa fa di peggio?

Non vale certo solo per le piante, ma anche per la biodiversità. Una delle pubblicità più aggressive prodotte contro l’olio di palma mostra un uomo che, mangiando uno snack, provoca la morte di un orango. La deforestazione e gli incendi del Sud Est asiatico hanno sì messo in pericolo l’habitat di questa specie, ma non per colpa dell’olio di palma. Dei 21 milioni di ettari disboscati negli ultimi 25 anni in Indonesia solo 3 milioni sono stati occupati dalle palme. Il resto è servito ad altri scopi. «Stiamo cercando di educare la popolazione al rispetto dell’orango – spiega il responsabile del parco naturale di Sepilok -. Tempo fa era considerato un animale di compagnia: veniva uccisa la madre per poter crescere il cucciolo in casa. Molte famiglie contadine ne avevano uno. A preoccupare è la mentalità locale, non le palme». Per produrre olio con criteri di sostenibilità ambientale e rispetto degli oranghi, la Malesia ha fatto proprie due certificazioni: una internazionale, l’Rspo, che riguarda i grossi produttori (20% della produzione con 12,1 milioni di tonnellate), e una locale, l’Mspo, che interessa i piccoli agricoltori. «Dobbiamo proseguire sulla strada delle certificazioni», afferma deciso l’ex ministro per l’Industria delle Piantagioni Douglas Uggah Embas.

Il vero problema è che nei prossimi anni serviranno tra le 30 e le 70 milioni di tonnellate di oli vegetali in più per soddisfare i bisogni energetici della popolazione mondiale. Su cosa investire, dunque? L’unica via percorribile sembra quella dell’olio di palma certificato. La palma infatti richiede meno terreni rispetto agli altri oli vegetali (colza, soia, girasole e oliva) e ha una produttività da 5 a 10 volte superiore. Da solo copre il 30,7% del fabbisogno globale usando appena il 5% dei terreni coltivati per gli oli e lo 0,32% delle terre agricole mondiali. Secondo la Fao, un ettaro di terra genera 4 tonnellate di palma, 0,75 di colza, 0,39 di soia e appena 0,32 di oliva. Fatte le dovute proporzioni, se decidessimo di non consumare più olio di palma sostituendolo con altri oli, il consumo di terre crescerebbe esponenzialmente. Aumentando pure la deforestazione: un completo autogol. «La strada che state imboccando non è positiva né per l’ambiente né per la salute», conclude Embas. Puntellando le porte di quel fortino che dovrà lottare ancora a lungo per liberare l’olio di palma (e la Malesia) dalle malelingue.

Categoria Ambiente

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