Intoccabilità degli animali e ultra veganesimo uccideranno la libertà d’espressione
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Ragioni minime per capire perché il pensiero unico sui temi ambientali (e animali) è l’anticamera della gogna mediatica
di Matteo Righetto | 22 Ottobre 2016 ore 06:18 Foglio
S"e io fossi un animale non mi farei mai difendere da un animalista”. Questa la battuta sfuggitami di recente al Circolo dei lettori di Torino, in occasione di un incontro che mi vedeva ospite di Torino Spiritualità, una bellissima rassegna curata da Armando Buonaiuto e dedicata quest’anno al tema: “D’istinti animali”. Imbarazzo generale e qualche occhiataccia, ma per fortuna niente di più. In un ambiente meno colto e meno autorevole sarebbe senz’altro andata peggio. Certo, i diritti degli animali sono una cosa seria, così come serio è il nefasto intervento dell’uomo che nel corso dei secoli ha devastato, depredato e prosciugato le risorse ambientali e culturali del pianeta e della biodiversità in nome di un antropocentrismo assolutista e dispotico. D’altronde a Torino Spiritualità ci si è ritrovati anche e soprattutto per parlare di questo.
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Ciò detto, però, sono fermamente convinto che la dittatura del Pensiero Unico e del politicamente corretto declinato anche su temi ambientali ci stia facendo precipitare verso forme di intolleranza sempre più accese, per cui qualcuno, in nome di convinzioni proprie, vorrebbe negare a molti altri non solo le libertà alimentari, ma anche quelle di opinione, pensiero e parola. Pena: il pubblico linciaggio o la gogna mediatica. Laicismo spinto e ateismo verde a parte, che considerano l’uomo semplicemente come uno degli innumerevoli elementi dell’universo, attribuendogli lo stesso ruolo cosmico e la stessa importanza etica di un polpo o di un trifoglio, personalmente ritengo che molte delle tesi avanzate da certi ambientalisti circa il rapporto etico uomo-animale e uomo-ambiente risultino spesso infondate culturalmente, molto naïf, utopistiche e a volte palesemente falsate a fini propagandistici. E proprio su certe assurde e paradossali falsità ideologiche sarebbe bene soffermarsi per un momento.
Voglio prendere come esempio per tutti il grande equivoco storico e culturale relativo al falso mito del nativo americano ecologico, e per farlo mi appoggio a un ottimo saggio di Giorgio Mariani pubblicato in “Ecocritica” a cura di Caterina Salabè (Donzelli editore, 2013). In tale contributo viene infatti spiegato come sin dalle sue origini, il movimento ecologista statunitense abbia spesso fatto ricorso alla figura simbolica dell’indiano americano come modello di un corretto ed equilibrato rapporto tra uomo e ambiente naturale. C’è una figura in particolare che ricorre sempre nella propaganda ecologista americana, quella di Chief Seattle, uno dei firmatari del trattato di Point Elliott del 1855 col quale le tribù Duwamish e Suquamish si arresero alla colonizzazione bianca di una vasta area della north-west coast degli States. Egli viene percepito dagli ecologisti americani come un “profeta del sentimento ecologico nazionale”.
Peccato però che l’anglista Rudolf Kaiser abbia svelato parecchie mistificazioni e strumentalizzazioni postume apportate ai suoi discorsi allo scopo di creare ad arte un ruolo romantico e animalista degli indiani che tanto romantico e animalista non era affatto. A tale proposito, e a proposito dell’edulcorata visione del pellerossa costruita e proposta dalla propaganda ecologista americana, va senza dubbio tirato in ballo lo scrittore vivente Sherman Alexie, nativo americano cresciuto nella riserva di Spokane, un narratore famoso in patria per la sua dissacrante ironia politicamente scorretta. “Mi viene sempre da ridere – ha affermato in un’intervista – quando sento parlare degli indiani ambientalisti. Siete mai stati su una riserva? Ci sono sempre un sacco di lattine e rifiuti sulla strada”.
Sono anni che Alexie protesta contro la diffusione di un’immagine romanticheggiante, idealizzata e spesso paternalista degli indiani (“Le stronzate stereotipiche sull’essere indiani sono insopportabili!”).
Se la prende soprattutto con i wannabe indians, quelli che vorrebbero essere indiani senza conoscere nulla della società, degli usi e dei costumi dei pellerossa se non l’immagine che di loro offre il Nature Thinking stile New Age, e se la prende con gli ecologisti i quali “mettono in bocca agli indiani le loro parole appropriandosi d’immagini e identità native per i loro fini politici”. Insomma gli indiani strumentalizzati e rappresentati come green angels, perfettamente e pacificamente inseriti in un cosmo fatto di pace zoofila e idillico biocentrismo. C’è una differenza enorme e sostanziale quindi, secondo Alexie, tra l’ecologismo totalizzante di certi militanti e il sincero rapporto con la natura dei pellerossa, senza dubbio ecologista ma molto meno romantico e molto meno animalista di quanto si vorrebbe far credere dai wannabe.
C’è un libro interessante che ci aiuta a capire ancora meglio questa differenza di approcci ambientalisti, da un lato quello ideologico e dall’altro quello pragmatico. Sto parlando di “American Indian Literature, Environmental Justice, and Ecocriticism. The Middle Place (2001)” di Joni Adamson, docente di American Indian Literature presso la Arizona State University. In esso l’autrice scrive che mentre gli indiani da sempre coltivano una cosiddetta “Etica del Giardino”, che consiste nel rispetto di quel luogo intermedio tra natura e cultura antropologica (caratterizzato da uno sfruttamento sostenibile di un territorio per il sacrosanto fabbisogno delle comunità umane), gli ambientalisti euro-americani si sono spostati idealmente verso la wilderness, un luogo tanto incontaminato dalla cultura umana quanto romantico, idealizzato, e perciò immaginario e avulso dalla società reale fatta di esigenze concrete. Nel libro della Adamson si legge come uno dei suoi studenti Navajo abbia scritto in un paper che la maggioranza degli ambientalisti chiederebbe la fine immediata di tutti gli scavi minerari e una pulizia completa della mesa sacra attualmente violata (miniera di uranio di Black Mesa della Peabody Corporation), ma un’azione del genere metterebbe a serio rischio i posti di lavoro su cui la sua famiglia e quelle di moltissimi altri Navajo, fanno affidamento per sopravvivere.
Come se non bastasse, per paradosso quella stessa studentessa si trovava in quell’università e aveva la possibilità di seguire i corsi della Adamson proprio grazie a una borsa messa a disposizione dalla Peabody Corporation, e il suo desiderio era di poter tornare un giorno alla riserva e lavorare per la compagnia mineraria con l’intenzione di promuovere usi più responsabili della terra.
Nello stesso saggio Giorgio Mariani cita un racconto di Sherman Alexi dal titolo “The Lone Ranger and Tonto Fistfight in Heaven” nel quale si narra di un personaggio, tale Thomas, il quale ha appena ricevuto una valanga di soldi dalla Washington Water Power perché dovevano pagargli l’affitto per i dieci pali piantati su un terreno che egli aveva ereditato. Scrive Alexi con la sua proverbiale ironia: “Quando gli indiani fanno un sacco di soldi con queste grandi aziende bianche, tutti possono sentire i nostri antenati che se la ridono tra gli alberi. Ma non sappiamo mai se se la ridono degli indiani o dei bianchi. Mi sa che se la ridono un po’ di tutti.”
Alla luce di queste considerazioni verrebbe facile pensare che il più saggio ed efficace rapporto tra uomo e ambiente naturale è proprio quello sintetizzato dalla definizione di “Etica del Giardino” della Adamson, ovvero un approccio ispirato alla cultura nativa reale e non a quella dell’apostolato verde, un approccio cioè nel quale non vi sia la considerazione di una egemonia del mondo verde su quello umano. La relazione che deve esserci tra le due dimensioni è quella intimamente ecologica e basata cioè su valori e criteri di cura, custodia, gestione oculata, intervento equilibrato, armonia e rispetto, senza rinunciare al progresso e all’innovazione. Una sorta di ecologia della ragione, ecologia liberale o ecologia illuminata, per capirci, al netto di tutti i fanatismi geo-intellò che vorrebbero ridurre l’essere umano al rango di trifoglio.
Invece, mutatis mutandis, anche in Europa possiamo assistere alle medesime dinamiche integraliste così in voga di là dell’Atlantico, alimentate dal politicamente corretto e caratterizzate dalle stesse paturnie: il mito del ritorno alla wilderness, l’intoccabilità degli animali, il veganesimo dispotico, il biocentrismo assolutista, il turbo-animalismo, il fitocentrismo.
Mi viene in mente a proposito un passo tratto da “Arboreto Salvatico” di Mario Rigoni Stern (ecologista vero e cacciatore sincero), dove l’autore veneto, riferendosi agli ambientalisti e ai verdi di casa nostra i quali vorrebbero far perfino morire la tradizione dell’albero di Natale, scrive: “La loro ragione, molto emotiva e poco razionale, è che migliaia se non milioni di abeti vengono distrutti con grave danno ecologico. E si indignano. Ma le cose non stanno così. […] Vengono utilizzati per gli alberi natalizi i cimali degli abeti tagliati nel bosco per necessità colturali. Si sa che la migliore foresta non è la foresta vergine o quella abbandonata a se stessa, ma quella mista, disetanea e coltivata dall’uomo. Lo dicono esperti forestali che tutta la vita hanno dedicato al bosco, e per coltivarlo, per avere i benefici, bisogna appunto tagliare o agevolare lo sviluppo […] Non preoccupatevi, quindi, amici ecologisti e verdi, per gli alberi di Natale che vedrete vendere nelle vostre città: hanno lo stesso valore morale dei fiori nelle fiorerie.”
Parole di uno che la natura la conosceva bene e la rispettava profondamente senza fanatismi di sorta. Ma pensate che caccia (mediatica) all’uomo si scatenerebbe nei confronti del grande Rigoni Stern se oggi fosse ancora vivo e si permettesse di scrivere sapienti riflessioni come questa su Facebook!