L’orrore del cibo che diventa dio
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Mangiare è diventato un culto sostitutivo, surrogato di massa della vera religione, da quando abbiamo iniziato a leggere nei menù un aggettivo terribile: “etico”. Perché confondiamo il Creatore con i Bottura
La benefica organizzazione botturiana si chiama Food for Soul, nome perfetto nel tempo del cibo come culto sostitutivo e surrogato di massa della vera religione (foto laPresse
di Camillo Langone | 15 Agosto 2016 ore 06:01 Foglio
Sto cercando di ricordare il momento in cui il cibo in Italia è diventato un culto sostitutivo, un surrogato di massa della vera religione. Forse nel 2009? E’ l’anno in cui nacque Dissapore, l’unico sito gastronomico che ogni tanto sbircio nonostante la mia idiosincrasia per l’ironia: il suo slogan era ed è ancora “Niente di sacro tranne il cibo”. Non va considerato una battuta, nessuna battuta è solo una battuta, e a chi lo prende sul serio fornisce la preziosa informazione che, sommando i metropolitani complicati che leggono abitualmente il sito ai provinciali semplici che invece affollano la sagra della salsiccia di Monte San Biagio, il numero degli italiani ritenenti il cibo degno di alta venerazione, del massimo rispetto (come da accezione Treccani), supera di gran lunga quello di chi obbedisce al primo comandamento, “Non avrai altro Dio all’infuori di me”.
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Ho citato una sagra. Ce ne sono ancora tantissime e spesso sono ancora legate alla festa patronale: ma legate nel calendario, non nei cuori. Le sagre non sono più sacre, lo spunto iniziale è affogato nei succhi gastrici e non a caso le nuove feste del cibo non hanno bisogno di pretesti cattolici. “Gola gola”, ad esempio, la manifestazione che si è svolta recentemente a Parma. Le diverse parti in cui si articolava hanno registrato molto diversi gradi di successo: la mostra di fotografie di Francesco Maria Colombo, scatti nei caseifici e nei salumifici, era deserta, perché agli italiani l’arte interessa solo quando è morta o mortifera; il museo etnografico Guatelli risultava visitato da ben due pensionati francesi perché in tanti abboccano al chilometro zero ma nessuno vuole sapere quanto fosse sudato e misero quel chilometro quand’era vero, all’epoca in cui il grano si raccoglieva con le falci oggi appese al muro come fossero un’installazione; l’intervento del fisico Davide Cassi, sui drink non newtoniani insomma sulle nuove possibilità del cocktail, veniva seguito da quattro gatti, perché gli italiani snobbano la scienza (tutti crociani? Tutti umanisti?) e comunque spritz e mojito bastano e avanzano; l’area dedicata al cosiddetto street food era caratterizzata da file lunghissime. Non me ne lamento troppo perché erano anni che non vedevo il piazzale della Pilotta pieno di famiglie italiane anziché di spacciatori africani. Laddove sindaco, questore, poliziotti, vigili hanno fallito ecco che ci sono riusciti i “30 migliori food truck d’Italia” ossia friggitori e polpettai. Mi resta però l’amaro in bocca per la sempre più evidente pretesa dei miei connazionali di vivere di solo pane (magari con abbondante companatico tuttavia, evangelicamente parlando, “solo pane”).
Torno a Dissapore e stavolta non al 2009 bensì a questa estate 2016 e a una prima pagina molto ben impaginata, fotografata e intitolata. “Come funziona il primo ristorante per nudisti?” è un articolo che conferma quanto Lattanzio, l’apologeta cristiano, sia valido oggi come 17 secoli fa: “Chi non pratica il culto di Dio conduce una vita da bestia in sembianze d’uomo”. Chi non pratica il culto di Dio può benissimo andare a Londra, moderna Babilonia, entrare in un locale dal nome indù, Bunyadi, e quindi in uno spogliatoio lasciare i propri abiti e decidere se usufruire di una leggera vestaglia o pranzare nudo come un verme, come una bestia in sembianze d’uomo, appunto. Per tornare, dicono gli ideatori, “alla purezza priva delle trappole della vita moderna”. Per tornare, dico io, al mito del buon selvaggio, roussoviano e anticristiano: “Perché mi dici buono? Nessuno è buono” (Luca 18,19).
Nessuno è buono tantomeno nel giornalismo gastronomico e non per le stroncature che non esistono quasi più siccome per stroncare bisogna saper scrivere, disporre di una griglia di criteri critici, pagare il conto e lavorare per un editore che garantisca la manleva in caso di querela. Merce rara.
Nessuno è buono perché tutti sono complici di classifiche gladiatorie come la World’s 50 Best Restaurants e la Michelin, che non è fatta da giornalisti ma che dai giornalisti è incessantemente, stoltamente rilanciata (ogni volta che un giornalista scrive “ristorante stellato” il giornale su cui scrive perde una copia, perché per leggere “ristorante stellato” non c’è bisogno di pagare, un’espressione così automatica la si può trovare gratis su TripAdvisor e se mettessero dieci scimpanzé davanti a dieci tastiere per dieci giorni secondo me prima della fine dell’esperimento uno di loro riuscirebbe a digitare “ristorante stellato”). C’è gente che si è uccisa per una stella in meno o anche solo per il timore di una retrocessione, uomini sopraffatti dalla tensione, inseguiti dalle banche perché i migliori ristoranti sono spesso in perdita e alcuni grandi cuochi non riescono a tappare i buchi nonostante banchetti e marchette, e fra le marchette annovero i programmi televisivi di cui tanti farebbero volentieri a meno, se avessero il locale passabilmente pieno. In questi pagani circenses hanno perso la vita Bernard Loiseau (fucilata in bocca), Franco Colombani (testa nel sacchetto di plastica), Sauro Brunicardi (tuffo nel Serchio), Homaro Cantu (impiccagione), Benoît Violier (pistola), più alcuni concorrenti delle varie Cucine da Incubo, programmi per sadomasochisti semicriminali, al limite dell’istigazione al suicidio.
E’ grazie a un simile pubblico che ricominceranno i combattimenti nei circhi, non appena il cristianesimo verrà proibito per legge (in Italia i primi firmatari saranno, me lo sento, Michela Marzano e Ivan Scalfarotto). Perché la vita umana non è sacra ma le stelle Michelin sì. Almeno fino a quando brillano. Nemmeno i grandi cuochi sono dèi: essendo mortali al massimo sono semidei e inoltre, senza un Omero o un Ovidio che li eterni, anche se non muoiono impiccati finiscono tristemente dimenticati. Oscar Wilde sognava di diventare immortale grazie all’invenzione di una salsa, erano altri tempi ossia i tempi della salsa Mornay e della pesca Melba, oggi è impensabile, le ricette si sono spersonalizzate, non contengono più nomi propri e così dozzine di celebrati cuochi dopo essersi spaccati la schiena su innumerevoli menù Innovazione & Tradizione sono andati o stanno per andare in pensione senza lasciare tracce durevoli.
Gianfranco Vissani, che forse è ancora uno dei massimi, appare mediaticamente usurato. Di Fulvio Pierangelini (che non avrà inventato una salsa ma la passatina di ceci sì) ogni anno si sussurra il ritorno, la riapertura di un ristorante tutto suo, e l’estate scorsa a Castellabate mi fece capire quanto desiderasse e al contempo temesse la rentrée. E cosa rimane delle generazioni precedenti? Dove sono gli chef che portarono in alto Guido di Costigliole, la Locanda dell’Angelo di Ameglia, la Scaletta di Milano, l’Antica Osteria del Ponte di Cassinetta di Lugagnano, i Dodici Apostoli di Verona, il Toulà di Treviso, il Sabatini di Firenze, il Passetto di Ancona, l’Alfredo alla Scrofa di Roma, la Pignata di Bari? Se sono vivi, perché nessuno ne parla più? Se sono morti, perché non gli hanno dedicato una strada, una lapide, un premio? C’è che i santi finiscono sul calendario e i cuochi nel dimenticatoio. Pertanto capisco l’ansia della magrezza, utile a prolungare la telegenia come a certe attrici chirurgicamente modificate. Ma come fanno? Cracco e Bottura e Oldani non me la contano giusta, sono troppo asciutti, a cinquant’anni se mangi e se bevi non puoi non avere un filo di pancia: avranno fatto un patto col diavolo o, nella migliore delle ipotesi, ingoiato una tenia.
Stavo cercando di ricordare il momento in cui il cibo in Italia è diventato un culto sostitutivo, un surrogato di massa della vera religione. Forse quando ho cominciato a leggere nei menù l’aggettivo “etico”? O quando nelle cantine sono entrati i vini biodinamici, misticheggianti e gnostici? Questi mi stanno quasi facendo rimpiangere i vinoni pesantoni che negli anni Novanta prendevano i tre bicchieri sulla guida del Gambero Rosso e i complimenti di Bruno Vespa su Panorama, i rossi e a volte perfino i bianchi sepolti nelle barrique, puzzolenti di legno, imbevibili. Perché rappresentavano non un’eresia ma semplicemente un’idolatria, l’adorazione tributata ai vini prodotti in California e aventi agli occhi dei clienti delle enoteche di provincia il pregio dell’alto costo. Un millennio fa. Credo che la prova provata dell’apostasia dilagante sulle tavole dei ristoranti italiani siano gli adesso di gran moda vini senza solfiti, ossidati, sedicenti arancioni e invece marroni, puzzolenti di pollaio. Più ancora che dall’esoterismo finis Austriae di Rudolf Steiner le bottiglie in questione discendono dal catarismo medievale: càtaro deriva dalla parola greca che significa “puro” e i vini marroni vengono spesso definiti “veri” dai loro produttori.
Entrambi i fenomeni appartengono al filone gnostico: il bene (il vero) tutto da una parte e il male (il falso) tutto dall’altra, tipo Movimento cinque stelle versus Tutti-gli-altri-partiti; il mondo percepito come complessivamente malvagio; la salvezza riservata a pochi iniziati e quindi la tendenza a riunirsi in sette e conventicole... Stavolta nel quadro della fine dell’antropocentrismo: “Dato che abbiamo assistito alla morte del vero Dio, Madre Natura è stata assunta a idolo” scrive il teologo Michael Novak. I vignaioli settari rifiutano i diserbanti, i concimi chimici, gli insetticidi, i solfiti, perfino i filtri (che di chimico non hanno nulla essendo parenti degli scolapasta delle nostre cucine), perché per questi neoprimitivi la scienza è un sacrilegio. E i bevitori settari credono di salvarsi l’anima facendosi piacere un vino limaccioso, colore di Po in piena.
Infine i refettori. Crollano le vocazioni e ai refettori conventuali si sostituiscono refettori laici che parassitizzano l’antico modello: il Refettorio Simplicitas, locale parafrancescano di Milano tutto quiete, bisbigli, sbadigli e cibi poveri, e il RefettoRio di Massimo Bottura, sempre lui, il gran cuoco tutto entusiasmo e giochi di parole che durante le Olimpiadi ha dato vita a Rio de Janeiro a questa mensa per bisognosi. La benefica organizzazione botturiana si chiama Food for Soul, nome perfetto nel tempo del cibo come culto sostitutivo e surrogato di massa della vera religione.
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