Se burocrazia e maltempo affossano le ciliegie italiane
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La produzione di "oro rosso" in Puglia è messa in ginocchio dalla burocratizzazione dello Stato… e dal maltempo. Per gli agricoltori nessuna tutela
Emanuela Carucci - Gio, 26/05/2016 - 09:31 Giornale
Tra maggio e giugno le campagne si colorano di rosso. Insieme ai papaveri, ci sono anche loro, succose e dolci, dalle rotondità romantiche, ricordano un cuore. Parliamo delle ciliegie, e di quelli pugliesi in particolare, tesoro e ricchezza non solo della regione, ma di tutto il Paese.
In particolare la qualità cosiddetta “ferrovia”, ricorda a ilGiornale.it Emilio Cirillo Farrusi, produttore di Sammichele, in provincia di Bari.
Il sorriso di Cirillo Farrusi è breve, fugace (guarda il video). Perché quest’annata si sta rivelando disastrosa e molti nodi stanno venendo al pettine. Si pongono urgenti questioni: dai danni del maltempo alla burocrazia; dalla concorrenza straniera ai controlli.
Quest’anno le notizie si susseguono veloci e negative, come bollettini di guerra: ultima in ordine di tempo, qualche giorno fa, quella dei 90 milioni di danni provocati all’agricoltura dalle grandinate che hanno messo in ginocchio la zona sud-orientale della provincia di Bari, quella dove è rilevante proprio la produzione di ciliegie, ora praticamente in ginocchio.
La pioggia ha tartassato le ciliegie, ma già a fine aprile la questione della iscrizione dei produttori alla “Rete di lavoro agricolo di qualità”, pena il mancato conferimento del prodotto (che così andava perso irrimediabilmente), ha agitato i sonni dei produttori al punto che nella capitale storica delle ciliegie pugliesi, quella Turi (in provincia di Bari) nota per essere stata la sede in cui Antonio Gramsci scontò la prigionia nelle carceri fasciste, si è gridato al complotto della grande distribuzione. La questione relativa all’iscrizione alla “Rete di lavoro agricolo di qualità”, peraltro già prevista dallo scorso anno, è stata vista come una complicazione burocratica e come una manovra che la grande distribuzione avrebbe voluto mettere in atto per far crollare i prezzi.
“Lavoriamo un intero anno per la raccolta di un mese in cui il prezzo del prodotto varia. Ieri, ad esempio - racconta Cirillo Farrusi – era di 1.50 euro (al chilo), oggi il prezzo è di 0.95 centesimi. Raccogliamo la mattina dalle sei per non affrontare il caldo afoso. Lo facciamo a scatola chiusa. Al momento della vendita scopriamo il prezzo. Può andar bene come no”. Nessuna tutela sul prezzo, quindi. Mentre a pochi chilometri, nei porti di Bari o Brindisi, arrivano le navi dalla Turchia con il loro carico di ciliegie di cui non si conosce l’esatta provenienza e il modo di produzione.
Molto spesso i prezzi sono insostenibili, dovendo sopportare le spese della manodopera e le tasse. Il maltempo ha assestato il colpo di grazia facendo calare ulteriormente il prezzo con un effetto devastante.
“La novità di quest’anno è la ‘rete di qualità’” torna a dire Ferrusi con amarezza. I produttori locali, senza avviso, non hanno potuto vendere le primizie perché, come detto non in possesso della iscrizione “rete di lavoro agricolo di qualità”. Ma cos’è la “Rete”?
Si tratta di una certificazione dell’Inps per monitorare meglio le aziende. “Nulla in contrario” ribadiscono i produttori, ma, come emerge anche da fonti di stampa, le associazioni di categoria aderenti ad “Agrinsieme puglia” hanno denunciato il ritardo del rilascio degli attestati. In questo modo sono stati penalizzati i produttori italiani, favorendo le importazioni non solo dalla Turchia, ma anche dai paesi concorrenti dell’area Ue: Spagna e Grecia.
“Ci vorrebbero maggiori controlli e più mirati” dichiara a ilGiornale.it, Antonello Savino, anch’egli produttore pugliese di ciliegie. Una più severa attenzione permetterebbe di abbattere l’abusivismo di aziende che, sfruttando il caporalato, riescono ad ridurre drasticamente i costi e, quindi a vendere ad un prezzo inferiore il prodotto finale, tagliando le gambe alla produzione che rispetta le regole.
Ma un rimedio per non restare strangolati dalle spire della crisi ci sarebbe. “L’aggregazione in associazioni o in cooperative” risponde Farrusi. In questo modo i produttori, che negli ultimi anni sono aumentati, ammortizzerebbero i costi di produzione (alti in relazione ai prezzi di vendita) e, insieme, acquisirebbero una maggiore fetta di mercato”.
Per riuscire in questo, però, si dovrebbero superare alcune resistenze tipiche del Mezzogiorno: una cattiva gestione del corporativismo, individualismo e autoreferenzialità. Vecchi vizi duri a morire sui quali si abbattono ora gli effetti dei cambiamenti climatici. Piove sempre sul bagnato.
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