Il Milan non accende più l’immaginario, per questo il Cav. può vendere serenamente
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Dicono che sia in grandissima forma, “sempre sul pezzo”, rigenerato, di nuovo immortale come un highlander: vende, per ora non si sa quanto, a chi e a che prezzo, ma vende. Con gaiezza di cuore, senza rimpianti, senza bagnarsi l’occhio.
di Lanfranco Pace | 30 Aprile 2015 ore 20:25 Foglio
Dicono che sia in grandissima forma, “sempre sul pezzo”, rigenerato, di nuovo immortale come un highlander: vende, per ora non si sa quanto, a chi e a che prezzo, ma vende. Con gaiezza di cuore, senza rimpianti, senza bagnarsi l’occhio. Per Silvio Berlusconi il Milan non è una mantenuta di lusso da cui separarsi quando il tempo incalza, la nobiltà decade e i soldi vanno a farsi fottere. Magari con il tempo gli si è affezionato, ma resta refrattario alla tradizione e indifferente alle maglie se è vero che prima di cogliere al volo l’occasione del Milan pensò per un attimo di comprare l’Inter. Non è Gianni Agnelli, che ebbe come dovere e destino di riversare sulla Juventus l’amore distante e blasé della propria stirpe. Non è Massimo Moratti che, per aver vissuto nella scia e nel ricordo del grande padre, dentro la sua creatura ha gettato soldi a bocca di barile senza altro ritorno che la gloria, lo piacer suo e l’affettuosa apprensione della famiglia. No, il Cav. aveva bisogno di una squadra qualsiasi, di una blasonata disastrata da portare via con due lire, per farne cavia da laboratorio, monumento alla sua visione del mondo, prolegomeni alla sua filosofia. Giocare per vincere, convincere e avvincere, attaccare sempre, mantenere lo stesso stile tra mura amiche e nemiche, essere più forti degli arbitri, degli infortuni, della mala sorte e dell’invidia: del Milan prima di Berlusconi si è perso il ricordo. Il nuovo cancella così il vecchio e diventa breviario applicabile ovunque anche in politica. Stefano Accorsi nella serie “1992” è un dellutriano senz’anima: crede che gli anni Ottanta siano uno stato mentale, che avendo un leader adatto li si possa far rivivere, rimane folgorato da Berlusconi quando lo sente esporre la filosofia alla base dei suoi successi calcistici.
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E’ potenza visionaria aver capito che ciò che nel calcio è consenso e chiarezza in altri campi diventa nebbia e dubbio. La qualità di una televisione è opinabile, di una casa editrice pure e non parliamo poi dei giornali: sono contenitori, la forza di seduzione varia in funzione del contenuto e dell’occhio e della pancia di chi guarda. Una squadra di calcio invece se è bella è oggettivamente bella come un’opera d’arte che parla a tutti. Il Milan è cambiato, Berlusconi anche. La spinta propulsiva che conferì aura alla sua discesa in politica e lo accompagnò lungo il ramo ascendente della parabola si è esaurita, a voler essere generosi, con la Champions League del 2007. E comunque non produrrebbe alcun effetto ora che l’uomo è abbastanza avanti nella discesa. Il Milan ormai è semplicemente una squadra di calcio e come le altre soggetta ai vincoli dei conti economici.
Rimettere a nuovo l’èra degli immortali, degli invincibili, riportare il club sul tetto del mondo avrebbe costi proibitivi: pensare poi di asservirla a una neo filosofia del successo avrebbe la stessa pregnanza di una nota a piè di pagina del Bignami. Il Milan è brand di successo nei mercati emergenti, ma non è più simbolo forte, chiave d’accesso nell’immaginario. Per questo può essere venduto. Allo sbarco di russi, sceicchi e uomini d’affari dell’estremo oriente sono sopravvissuti i tifosi di gran parte dei club europei: anche i nostri se ne faranno una ragione. Purché il presidente faccia in fretta.