Lettere al Direttore Il Foglio 13.8.2015
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Cosa spinge la famiglia Agnelli a mettere il naso fuori dall’Italia. Marchionne dice che nell’auto il ritorno sul capitale investito è così basso
1-Al direttore - Napolitano e Mattarella: due percorsi culturali diversi, due modi diversi d’intendere lo stato, due modi diversi di fare politica. Il primo più realista, pragmatico è cresciuto politicamente in un partito dove si poteva discutere ma mai mettere paletti alle decisioni del segretario, altrimenti si era fuori. Pur con molte contraddizioni ha capito che l’andazzo attuale del Pd, dove una minoranza pretende di dettare la linea politica del partito al segretario, eletto dalla maggioranza, in nome di una presunta purezza ideologica, maschera del prosaico terrore dell’irrilevanza, non è componibile culturalmente, per cui: o dentro o fuori. La querelle Senato può essere decisiva. Il secondo è l’erede di una frazione dei popolari aventiniani e dell’antifascismo cattolico. Ovviamente più culturalmente e politicamente vicino alla Bindi che a Renzi. Tutti i “cattolici adulti” contano su Lui. Vedremo al momento in cui vorrà, dovrà, uscire allo scoperto. Da quelle parti non gradiscono la neutralità.
Moreno Lupi
2-Al direttore - Ottimo il commento di Berta su FCA e il botta e risposta tra te e Ruggeri nelle lettere. Una chiosa. Marchionne dice che nell’auto il ritorno sul capitale investito è così basso da rendere necessaria una concentrazione tra i produttori per avere maggiori economie di scala. Marchionne intonò questo mantra già prima del crac Lehman, ma era su Fiat Auto. Ora lo estende all’intero settore. E tuttavia i costruttori, come ricorda Berta, hanno investito 100 miliardi nel 2014 per sviluppare i prodotti. Tutti stupidi o la media del pollo non funziona perché ciascuno si basa sui conti di casa propria? Temo sia buona la seconda. Il rendimento del capitale dipende sia dagli utili (Volkswagen ne fa di 13 volte superiori a quelli di Fca avendo ricavi “soltanto” doppi) sia anche, e starei per dire soprattutto, dal costo del capitale (le tedesche possono finanziarsi a tasso zero o quasi, Fca emette junk bond). Di qui la tendenza dei più forti a lasciare cuocere nel loro brodo i più deboli. La linea Winterkorn a Wolfsburg, la linea Barra a Detroit. Berta ha ragione a sottolineare l’approccio globale di Fca. Ma sono le differenze tra i bilanci delle imprese a determinare poi la piega che prendono le scelte dei diversi management, nei fatti e non nelle analisi introduttive come quella (brillante) fatta da Marchionne di fronte agli analisti. La fine della corsa del mercato americano dall’auto, prevista tra due anni al massimo, offrirà rischi e opportunità per tutti. Nessuno pensa di governare queste tendenze internazionali da Roma. Ma il governo, che si occupa di non perdere uno stabilimento ex Indesit, può disinteressarsi di Fca, pago della congiuntura favorevole attuale? Ambire a impiantare un secondo produttore automobilistico in Italia è una bestemmia se proprio ieri la Slovacchia annuncia l’apertura di un nuovo stabilimento Jaguar Land Rover da 300 mila pezzi? Ha ragione, infine, Cerasa a porre la questione del trasferimento della sede legale e fiscale di Fca fuori dall’Italia. Non è vero che nessuno ne ha mai parlato: qualcuno aveva avvertito che questo sarebbe accaduto già quando si fusero Fiat Industrial e Cnh. Ma è vero che se ne parla troppo poco e ancor meno si fa. Propongo al Foglio di ragionare su tre punti: a) alcune imprese, non solo Fca, spostano la sede all’estero solo perché l’Italia è un paese troppo spesso scoraggiante, il che è vero e ci sfida tutti al cambiamento, o anche per altre ragioni?; b) se alcune imprese estere investono in Italia sia aprendo nuove fabbriche sia comprando aziende italiane, vuol dire che già ora, in casi specifici da analizzare, il trade off tra vantaggi e svantaggi può attrarre capitali esteri; c) in ogni caso, un Paese manifatturiero come l’Italia può ragionare sulla exit tax, cara all’Europa industriale e invisa a quella finanziaria?
Massimo Mucchetti
Grazie per gli spunti. Più che sulla exit tax, ciò che mi pare più interessante su questo tema è capire cosa si potrebbe fare concretamente per evitare che il nostro sistema continui a incentivare le grandi aziende a mettere il naso fuori dall’Italia. In Inghilterra, per dirne una, è previsto un regime di favore per chi si trasferisce da quelle parti, e un anno fa il governo Cameron ha abbassato le tasse societarie dal 28 al 21 per cento, con il carico fiscale sulle imprese arrivato al 35,5 per cento, il livello più basso di tutto il G7. Poi si può discutere di tutto e si può anche ricordare che la progressiva uscita dall’Italia della famiglia Agnelli-Elkann ha ragioni che non c’entrano solo con il fisco ma c’entrano anche con l’idea di volersi concentrare su alcune eccellenze - e nessuno ci toglierà dalla testa che la scelta di investire sull’Economist (gran colpo!) sia legata in modo stretto anche all’idea di concentrare le proprie forze su alcune eccellenze di nicchia, come la Ferrari, in vista di un possibile passo indietro della famiglia dalla stessa Fca (nel 2018 scadrà il mandato di Marchionne). Tutto questo ha una sua importanza strategica. Ma per capire le ragioni per cui Fca ha messo il naso fuori dall’Italia tocca partire prima di tutto da qui. Dalle condizioni che ogni giorno spingono furori dall’Italia aziende stanche di combattere con un insostenibile sistema fiscale.
3-Al direttore - I recenti tragici fatti di cronaca che vedono coinvolti giovani i cui eccessi sono collegati anche all’assunzione smodata di bevande alcoliche, meritano una riflessione pacata e puntuale. Come spesso accade si invocano provvedimenti restrittivi ed esemplari perché fatti del genere non si ripetano. Mi permetta di ricordare a Lei e ai molti lettori del Foglio come Federvini, la Federazione che raccoglie i più importanti produttori di bevande alcoliche in Italia, sia in prima linea su questi temi e porti avanti da anni, sia in Italia sia in Europa, un impegno che mette al primo posto l’informazione e la sensibilizzazione sull’importanza del consumo moderato. I dati che riscontriamo nelle ripetute indagini che vengono condotte ci confermano la validità della scelta strategica assunta, anche rispetto agli altri paesi europei. Lo stile moderato nel consumo che sosteniamo è ancora la modalità prevalente fra i consumatori italiani ed ha visto positivi risultati anche nella qualità e correttezza dell’offerta e del servizio, nei limiti di legge, dei nostri prodotti. Federvini è espressione di centinaia di piccoli e grandi produttori, tutti testimoni del patrimonio economico e culturale del modello italiano. Non possiamo permettere che questo vada disperso. Dove si sconfini nel penalmente rilevante, è doveroso l’immediato intervento dell’autorità di controllo e giudiziaria. Dove occorre progettare interventi informativi ed operazioni di educazione e sensibilizzazione, Federvini è stata, e sarà, pronta a fare la sua parte.
Ottavio Cagiano de Azevedo
Direttore Generale Federvini