Sono andato a vedere il film su Bergoglio con il coltello tra i denti. “Il Papa della gente”, che è parte del titolo o della promozione, è un’espressione che mi fa rivoltare lo stomaco
di Giuliano Ferrara | 06 Dicembre 2015 Foglio
Sono andato a vedere il film su Bergoglio con il coltello tra i denti. “Il Papa della gente”, che è parte del titolo o della promozione, è un’espressione che mi fa rivoltare lo stomaco. Per gli adescatori e opportunisti della peggior risma vale sempre il celebre refrain castigliano che sembra scritto da Sancho Panza: ¿adónde vas Vicente? ¡Al ruido de la gente!
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Ne sono uscito con qualche lacrimuccia da disinibizione senile, dopo due ore e passa di celebrazione agiografica intensa e di colossale intrattenimento hollywoodiano, con un attore di talento sicuro, e carismatico, una storia argentina, ecclesiastica, romana e di potere ben raccontata e ben scritta nei dialoghi, un magnifico casting, ritmo e l’happy ending. Un tipo pieno di pregiudizi come me non poteva che fare questa fine di merda sulla scorta di un lieto fine. Soluzione lacrimevole che ho anche apprezzato: perché il Papa come carattere mi piace, anche se è un gesuita, che non è un difetto da poco per un giansenista come sono io, e ha un progetto per la chiesa che non mi sembra all’altezza della bassezza dei tempi (citazione dal barone Compagna); eppoi alla fine è una celebrazione della chiesa, è il rilancio di un’istituzione a cui tengo e che mi sembra utile e carica di potenziale luce nel tempo dell’oscurantismo secolarista.
Naturalmente l’assunto è falso. La favola cinematografica è favola. La sua radice non è la fede, come nelle agiografie vere, ma la credulità. Non è vero che il gregge della teologia del popolo è fatto solo di pecore buone. Ce ne sono, ma accanto a farabutti e montoni senza scrupoli. Non è vero che la gerarchia mangia squisite pastarelle al pistacho, si serve il tè in servizi di Meissen, traffica con i generali golpisti per basso istinto di potere, mentre i preti callejeros si danno il martirio per un vangelo senza glossa e senza ideologia. Bene e male s’intrecciano e si lasciano separare forse solo nella vita eterna, e questo è noto, e il film trascura anzi oblitera un dettaglio, pur essendo incentrato sul viaggio di dolore in Argentina di un prete del tutto speciale: i Videla e i Massera li ha fulminati per nazionalismo imperiale redivivo una droghiera di Sua Maestà chiamata Margaret Thatcher, che gli ha affondato l’incrociatore General Belgrano al largo delle Falkland (lo spirito santo può tutto, ma ci mette molto più tempo).
La Roma papale aveva bisogno di Los Angeles e degli studios, della loro tecnica, della loro filosofia se vogliamo usare parole grosse, sebbene il regista sia l’italiano Luchetti, molto capace, generoso di forzature e di magnifiche intenzioni. Evviva, dunque. Senza per questo esser costretti a pensare che l’enciclica spot per la custodia del creato con i metodi dell’Onu, l’incomprensione e il disconoscimento di quanto il capitalismo abbia fatto per sollevare il mondo dalla sua miseria materiale, e qualche belluria insopportabile in tema di fraternità inter-religiosa e abbraccio delle civiltà siano questioni da archiviare. Anche perché devo confessare che a tutta prima, poi no ché mi veniva il torcicollo e mi sono trasferito eroicamente al centro della sala, ho preso posto, al primo spettacolo del venerdì, nell’ultima poltrona a destra in basso, vicino all’uscita di sicurezza, hai visto mai che la disfraternità avesse deciso un’improvvisata delle sue.
P.S. Il film è fatto anche grazie ai soldi d’investimento di Berlusconi, ben scavato vecchio Cav. E per colmo di sapiente cinismo da botteghino il produttore del filmone sul Papa, Pietro Valsecchi, taoista, ha piazzato per lunedì sera su Rete4 un’agiografia su Putin, che si intitola “Il Presidente”. Me lo vedrò, e se mi scappasse la lacrimuccia anche per il vecchio compagno del Kgb, della filiera che una volta ai Papi gli tirava schioppettate in piazza per mano dei Lupi grigi, datemi decisamente per spacciato.
Categoria Italia