Il Papa dà ragione a chi racconta l'immigrazione come una guerra tra poveri
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La proprietà privata, scrive Bergoglio, è un diritto naturale ma “secondario”, chiaramente subordinato all’universale destinazione dei beni.. non più che “la proprietà privata è di diritto naturale”
ALBERTO MINGARDI 10 OTT 2020 ilfoglio.it lett5’
Alcuni dei fini dichiarati da Francesco sono in conflitto con i mezzi da lui indicati: l'universalismo mal si concilia con una visione economica scettica nei confronti della globalizzazione. Sostenere assieme la causa dell’immigrazione e l’irrigidimento delle regole del mercato del lavoro finisce per alimentare quelle tensioni sociali che il Papa biasima
Nell’ultima lettera enciclica di Papa Francesco, Fratelli tutti, la parola “popolo” ricorre 58 volte. Francesco insiste più e più volte sul concetto di inclusione, parla di un “popolo capace di raccogliere le differenze”. Ma esprime dichiaratamente diffidenza per quelle dottrine per cui “la categoria di popolo è una mitizzazione di qualcosa che in realtà non esiste”: per quel pensiero, cioè, che si ostina a ragionare pensando ai singoli individui. Ai loro diritti, alla loro libertà, al loro benessere.
Ha ragione Claudio Cerasa quando nota che alcuni dei fini dichiarati di Francesco sono in patente conflitto con i mezzi da lui indicati: che l’universalismo del Papa mal si concilia con una visione economica profondamente scettica nei confronti della globalizzazione e, più in generale, del ruolo dei singoli individui.
La proprietà privata, scrive Bergoglio, è un diritto naturale ma “secondario”, chiaramente subordinato all’universale destinazione dei beni.La prima grande enciclica sociale, la Rerum Novarum, è stata quella che ha aperto la strada alla rivalutazione dell’economia corporativa che il Papa fa felicemente sua, eppure definiva l’abolizione della proprietà privata “la soluzione inaccettabile dei socialisti” e ribadiva con forza che “la proprietà privata è di diritto naturale”. Nelle 288 note della Fratelli tutti, oltre 170 sono rimandi diretti a encicliche, messaggi, interviste di Francesco medesimo. Per la prima volta in un’enciclica “sociale”, non c’è spazio per un richiamo a Leone XIII.
Il Papa ha un nemico dichiarato, il neoliberismo. Questo sarebbe un pensiero “povero”, sviluppatosi attorno all’assunto che “il mercato risolve tutto da solo”, concetto che curiosamente il Papa mette all’indice in quanto “dogma di fede”. Purtroppo, pur in un testo che è lungo tre volte il Vangelo di Giovanni, non ci viene spiegato di preciso chi sosterrebbe che “il mercato risolve tutto da solo”, e che cosa s’intende per “tutto”. Tale approccio avrebbe mostrato i suoi limiti per “la fragilità dei sistemi mondiali di fronte alla pandemia” che “ha evidenziato che non tutto si risolve con la libertà di mercato”. L’esempio è perlomeno curioso: la pandemia ha portato i governi a “spegnere” le economie, a impedire alle persone di esercitare la loro “libertà di mercato” che poi, in concreto, non significa altro che la libertà di cercarsi il mestiere che desiderano e la libertà di acquistare ciò che vogliono.
In realtà Francesco se la prende con l’idea del “trickle down”, del gocciolamento dei benefici della riduzione delle imposte dalle imprese, o dai ceti più elevati, a chi sta in fondo alla piramide sociale. Il “presunto traboccamento non risolve l’iniquità”, scrive il Papa, il quale però evita accuratamente di affrontare quella che dovrebbe essere, per lui e per noi tutti, la questione cruciale: quale insieme di istituzioni, cioè, consente di portare più persone possibili al di fuori della trappola della povertà. Il mondo sortito dalla rivoluzione industriale, nel quale la libertà di mercato ha avuto relativamente più spazio che nella storia precedente, ci suggerisce che anche il meno fortunato dei lavoratori riesce a trarre maggiori benefici da un’economia dinamica di quanti ne trarrebbe da un’economia statica.
Ma un’economia statica è esattamente ciò che il Pontefice auspica. Con una formula che sembra suggerire una vaga reminiscenza di Karl Polanyi, Francesco scrive che “senza forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca, il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica. E oggi è questa fiducia che è venuta a mancare”. Mentre è indubbio che non ci sono transazioni, non ci sono scambi, in assenza di un certo grado di fiducia, è tutto da vedere che effettivamente il mercato abbia così eroso le fondamenta della nostra stessa società da essersi “mangiato” quella fiducia. Al contrario, vediamo, giorno dopo giorno, emergere strumenti rudimentali per creare fiducia in un mondo di persone che sono necessariamente estranee le une alle altre e consentire loro di cooperare.
Se riusciamo, oggi, a provare simpatia anche per individui lontani, con un diverso colore della pelle, che vivono in realtà e culture lontanissime dalla nostra, è anche perché l’odiato motivo del profitto ha intessuto una rete di relazioni che travalicano i confini degli stati nazionali. La questione è però più profonda dell’incapacità del Pontefice di ragionare sui mezzi appropriati ai suoi fini (banalmente, sostenere assieme la causa dell’immigrazione e l’irrigidimento delle regole del mercato del lavoro significa alimentare proprio quelle tensioni sociali che Francesco biasima). Bergoglio ha in testa una comunità “chiusa”, nella quale ciascuno altro non è che un “organo” che opera in funzione, per l’appunto, del “popolo” tutto. La parola popolo, spiega citando se stesso, “ha qualcosa di più che non può essere spiegato in maniera logica. Essere parte del popolo è far parte di un’identità comune”. Questa identità prevale su ambizioni, desideri, passioni che sono meramente individuali.
Ecco perché i leader buoni sono quelli “capaci di interpretare il sentire di un popolo”. Non coloro che sanno riformare le istituzioni, non quelli che provano a sradicare la povertà, nemmeno quelli che lavorano per garantire il rispetto dei diritti fondamentali. Il mercato richiede regole impersonali, che non guardino in faccia nessuno. Il popolo “distribuisce” punizioni e premi a seconda di criteri predeterminati. Attenzione, però: se l’idea è quella di “aprire” allo straniero società nelle quali egli deve mettersi in fila per ricevere una chiara indicazione su qual è il suo posto, società nelle quali la ricchezza è “distribuita” e non guadagnata, il rischio è quello di lasciare sulla porta proprio i migranti che Francesco vorrebbe integrare. Coloro che sono più scettici sull’integrazione raccontano l’immigrazione come una guerra fra poveri. Il Papa dà loro inavvertitamente ragione.
Ai temi della giustizia sociale è dedicato "Contro la tribù. Hayek, la giustizia sociale e i sentieri di montagna", saggio di Alberto Mingardi in uscita per Marsilio il prossimo 29 ottobre.