Questo Papa è tutto moralismo, ideologismo e pauperismo. Che peccato
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Il pontefice ora se la prende pure con la ricerca sui vaccini anti Covid
GIULIANO FERRARA 10 .9. 2020 ilfoglio.it lett.3’
Non è indifferente come parla un Papa. Francesco ha scelto una lingua media, priva di fascino, che non ha incisività espressiva, non muove, non commuove, non ispira, chi lo ascolta non è messo di fronte alla questione di superare le proprie pigrizie mentali, non incontra la vicaria di Cristo, non vede un maestro sulla montagna, è invitato a accontentarsi del già detto, del già visto, di cose elaborate e risputate dai mass media ogni giorno, vittimismo, spiegazioni facili, sentimenti correnti e piatti al posto di ipotesi soprannaturali, parabole moralistiche invece che bibliche, nessuna vena allegorica, Dio nasce a Natale risorge a Pasqua e per il resto è subito Onu, Ong, ideologismo antimercato, pauperismo generico. E’ strano.
Il suo consigliere Spadaro, S. I., è un critico letterario innamorato a giusto titolo di Flannery O’Connor, narratrice del sud americano, stilista dell’imprevisto, del pauroso, dell’immaginazione come risorsa religiosa e mistica. Ma nello stile sociologico di Francesco non si ode nemmeno l’eco della grande letteratura cristiana, moderna e tardo antica, non si vede nulla di Paolo, della Patristica, di Agostino, dell’ascesi eremitica orientale, nemmeno l’ermetismo gesuitico e l’ermeneutica rischiosa del secentismo si vedono, non si vede il Barocco e in genere il frutto dell’arte cristiana, quel gran cinema che onora cattedrali e templi, tutto è discernimento di ciò che altrui intende, tutto è ascolto, proclività verso l’altro senza identità, e niente è autentico intendimento dei passaggi impervi della storia; questa lingua molle è un bignami ignaziano senza l’ombra della forza e della vivezza magistrale dei grandi predicatori, non c’è oscurantismo né illuminismo, né tradizione contro il tempo né gioco della ragione con il tempo, com’era nello stile di un Paolo VI, di un Giovanni Paolo II, di un Benedetto XVI. Era interessante di fronte alla sorpresa di un Papa inedito studiarlo, all’inizio, cercare di capire il suo gesuitismo dolce evangelizzatore, il riferimento a Pietro Favre, al suo Memoriale, gli intrecci possibili con la mistica nei misteriosi meandri del Cinquecento europeo; ma a qualche anno dall’inaugurazione del pontificato, dai primi sprazzi e scandali, chissà perché, il Papa è rifluito nel generico di una grammatica catechistica fatta tutta di amore, di caritas, e di perdono, che sono tratti salienti del cristianesimo, ma solo di quelli, e non bastano al mezzo né al messaggio.
Ora ce l’ha con la ricerca per i vaccini, con i brevetti, con il sistema di interessi e cura che ha consentito l’elevamento dell’aspettativa di vita verso età bibliche mai attinte nella storia del mondo, e confida al buon Carlin Petrini un’altra delle sue occasionali tirate contro l’umanità calpestata dal mercato selvaggio (ma dove: mai tanti hanno goduto di sistemi di welfare paragonabili a quelli presenti); ora il Papa ce l’ha con il fantasma della finanza e della globalizzazione sferica, due leve per la riduzione netta della estrema povertà, strumenti di un mondo liberale che al Pontefice fa senso perché pratica lo scarto, ma non vede se non di tanto in tanto e come per obbligo lo scarto che conta, quello dell’aborto, dell’eugenetica. Si annuncia un’enciclica sulla fratellanza, e ci mancherebbe, i populismi religiosi e politici sono un attacco al cuore della visione cristiana, ovvio, ma avanza il sospetto di nuovi ecologismi senza vigore, senza nerbo, mutuati dall’ideologia scientista piuttosto che dalla scienza, appoggiati al mainstream, al senso comune unico dominante. Che peccato.