Il Pd è morto, viva il Pd. Cosa si gioca la sinistra (e Renzi) quando discute di Grillo e Verdini
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La domanda è sempre la stessa ma è sempre centrale: meglio perdersi, per vincere, o meglio perdersi, pur di vincere e di non perdere? Non è uno scioglilingua ma è la grande sfida del Pd renziano
di Claudio Cerasa | 29 Febbraio 2016 ore 07:53
La storia è nota ma vale comunque la pena ritirarla fuori. Partiamo dall’inizio. Giuliano Amato non ne vuole più sapere nulla. Sergio Cofferati non ne parliamo. E poi Massimo D’Alema, Lamberto Dini, Ottaviano Del Turco, Mario Barbi, Marco Follini, Rosa Iervolino, Gad Lerner, Agazio Loiero, Carlo Petrini, Francesco Rutelli, Paola Caporossi, Marcello De Cecco, Letizia De Torre, Donata Gottardi, Vilma Mazzocco, Luciana Sbarbati. In tutto sono diciotto. Diciotto dei famosi quarantacinque fondatori del Pd (anno 2007) che oggi non si riconoscono più in questo Pd e se a questi nomi vogliamo aggiungere anche i nomi di Enrico Letta e di Rosy Bindi, che fanno parte del Pd ma che questo Pd lo osservano con la stessa diffidenza di molti dei nomi che abbiamo appena elencato, si potrebbe dire che quasi la metà dei fondatori del Pd oggi vede il Pd e non lo riconosce più. Hanno torto, hanno ragione? Certo che hanno ragione. E la reazione scomposta e confusa ma anche gagliarda della sinistra del Pd – che in queste ore, in varie forme, si dice particolarmente indignata per l’abbraccio definitivo tra Matteo Renzi e Denis Verdini – è il sintomo di un malessere profondo che sfiora l’anima del democratico collettivo.
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La domanda è sempre la stessa ma è sempre centrale: meglio perdersi, per vincere, o meglio perdersi, pur di vincere e di non perdere? Non è uno scioglilingua ma è la grande sfida del Pd renziano. Ed è una sfida che ha un suo interesse perché il partito guidato da Renzi oggi ha l’occasione concreta di dimostrare di essere non solo l’unico partito di sinistra in Europa a godere di buona salute ma anche di essere, con un mix di riformismo e populismo, l’unica possibile speranza per la socialdemocrazia europea. Si dirà: è la strada giusta quella di aver ucciso il Pd delle origini? Non hanno forse ragione i compagni del Pd quando dicono che è in corso una mutazione genetica, che la sinistra si sta perdendo, che è meglio fare un congresso, che Verdini è meglio lasciarlo stare, che ci sono alcuni voti che puzzano, che la sinistra non si può confondere con la destra, che il partito della nazione è una follia, che l’alternanza va garantita, che Renzi deve dire da che parte sta, eccetera eccetera? La risposta più semplice che si potrebbe dare a questa domanda è che finora il gioco renziano ha funzionato bene e che, pur essendo al governo, il Pd ha vinto tutte le elezioni che si sono disputate dal 2014 a oggi – e nonostante tutto arriva da strafavorito anche alle prossime amministrative (persino a Roma non è impossibile pensare a una vittoria del Pd).
Rispondere così alla domanda è però riduttivo e bisogna fare un passo in più. E il passo in più è questo: quali sono, nella sinistra, le visioni sul futuro del più grande partito della sinistra europea? I modelli sono due. Il primo è quello renziano ed è un modello facile: rinunciare a rappresentare la sinistra radicale, non disperarsi dalla perdita di pedine come Fassina, D’Attorre, Cofferati, e preoccuparsi di andare a conquistare, sia in Parlamento sia fuori dal Parlamento, grillini delusi e berlusconiani sconfortati. Lo schema dei suoi avversari è invece speculare allo schema provato invano da Bersani nel 2013 ai tempi del tentato accordo di governo con Grillo e delle gloriose consultazioni con il WWF, Saviano, il Touring Club Italia, Greenpeace, Legambiente, Coldiretti, Copagri, Cai, Confcooperative, Confagricoltura. Il ragionamento è questo: il Pd, per tornare alle sue origini, deve mettersi in testa che le sue potenzialità di crescita non sono a destra (bleah) ma sono nel mondo del Movimento cinque stelle. E per questo, in Parlamento, è giusto provare a coinvolgere Grillo e i Casaleggini ogni volta che si può.
I cordiali vaffanculo rivolti a ciclo continuo da Grillo, sempre secondo questo ragionamento, non devono trarre in inganno: la sostanziale fusione tra gli elettori del Pd e quelli del cinque stelle è possibile, è solo questione di tempo, ci sono sempre spiragli, e per arrivare a questa conclusione bisogna lavorare su alcuni temi con i grillini e insistere, insistere, insistere. L’idea che inseguire Grillo regali voti a Grillo non sfiora la testa dei nostalgici del Pd del WWF ma il punto che ci sembra importante è che il Pd oggi vive in un paradosso. La sinistra che funziona, infatti, è una sinistra che rinnega le sue origini. E rinnegare le sue origini oggi non vuol dire tradire se stessi ma vuol dire una cosa diversa. Vuol dire che, in un’epoca storica in cui i partiti che non rinnegano le proprie origini vengono spazzati via dalla storia, inseguire i movimenti non di governo è il modo migliore per prepararsi a un futuro non di governo.
Perdersi o perdere, dunque? Se il bivio della sinistra è questo, allora, piuttosto che perdere le prossime elezioni, meglio perdersi un Cofferati o un D’Alema. Un Pd che vuole tornare alle origini è un Pd che vale quanto quello della non vittoria del 2013 (25 per cento). Un Pd che nega le sue origini è un Pd che può governare il paese per i prossimi sei anni. Anche senza D’Alema, diciamo.
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