Quanto vale per Renzi annientare il sistema delle regioni
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Per il premier la sfida alla duplicazione della burocrazia statale e al consociativismo conta quanto l’abolizione dell’articolo 18, se non di più
di Claudio Cerasa | 04 Novembre 2015 ore 06:08
Varrebbe come la fine del bicameralismo, come la stesura di una nuova legge elettorale, come un tosto piano di spending review, come l’abolizione dell’articolo 18, se non di più. Dice Matteo Renzi che la polemica sulle regioni innescata dal governatore piemontese Sergio Chiamparino – convinto che i tagli previsti dalla legge di Stabilità configurino una situazione che nei fatti mette a rischio la sopravvivenza del sistema regioni – potrebbe farci divertire alla grande e potrebbe portare alla luce qualche gustosa verità sul sistema dei governi regionali, le loro voci di spesa, i loro sprechi, i loro costi e forse persino il loro ruolo storico all’interno di un paese che non considera più un tabù la fine del sogno federalista. Non sappiamo cosa intenda Renzi per divertimento.
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Sappiamo però che se c’è una verità storica che va portata alla luce sul tema delle regioni quella verità non riguarda solo la questione delle voci di spesa degli sprechi sanitari, la storia dei 17 miliardi di contributi a fondo perduto gestiti dai 20 diversi centri di spesa regionali, l’eccessiva autonomia di cassa regalata a governatori che non sempre sanno come gestire il denaro in modo virtuoso. La verità riguarda piuttosto un tema politico e culturale con il quale il presidente del Consiglio dovrà fare i conti: l’esistenza stessa delle regioni. Nella grammatica renziana, dopo la fine del bicameralismo perfetto, la revisione del Titolo V, il rafforzamento dei poteri del premier, la scelta di accentrare verso lo stato alcune competenze assegnate da tempo ai governatori, il passaggio alla rottamazione quanto meno parziale delle regioni è nelle cose, e negli ultimi anni l’ex sindaco ha offerto spesso l’impressione di voler lavorare in questa direzione. Ora ragionando sull’abolizione delle regioni a statuto speciale (Leopolda 2014). Ora ragionando sull’accorpamento delle regioni (Leopolda 2013). Ora accettando di ragionare sul riassetto del sistema generale attraverso una procedura di revisione costituzionale che prevede anche la riduzione delle regioni (ordine del giorno del senatore Pd Ranucci accettato dal governo l’8 ottobre 2015). Il senso dell’operazione non avrebbe solo una valenza legata alla fine di un regime surreale di duplicazione della burocrazia statale o ai singoli risparmi di spesa ma avrebbe un significato importante anche per un’altra ragione legata a una parola chiave che si chiama consociativismo.
Il professor Piero Craveri, autore di una monumentale storia della Repubblica italiana dal 1958 al 1992 (Utet), sostiene che non sia un caso che la legge che ha costituito le regioni a statuto ordinario sia stata firmata appena due giorni dopo la legge che ha istituito lo Statuto dei lavoratori (la prima il 22 maggio 1970, la seconda il 20 maggio 1970), arrivando a dire (eureka) che c’è un filo diretto che lega l’origine delle regioni con l’origine dell’articolo 18: un sostanziale patto di non belligeranza con la sinistra sindacalizzata utile a regalare al Pci un contentino di governo (regioni da guidare, soldi da spendere, potere locale) e ad archiviare le note turbolenze registrate alla fine degli anni Sessanta. Quel consociativismo, scrive Craveri, alla lunga contribuì a bloccare il paese e oggi si può dire che quella mancanza di coordinamento tra stato e regioni denunciata trent’anni fa in uno storico discorso a Palazzo Madama da Giovanni Malagodi ha portato alla maturazione di un sistema insostenibile. Che forse non potrà essere superato del tutto ma che se non verrà rivoluzionato con urgenza diventerà presto il nuovo articolo 18 del nostro paese. C’è una catena da spezzare. Cosa aspetta Renzi?
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