Il piano di Renzi per il voto anticipato

Il Foglio scopre una simulazione segreta sulle urne. La spia delle intenzioni del premier non è soltanto il tour in 100 teatri. Renzi oggi vuole governare ma intanto sul tavolo ha altre due opzioni, e nessuna coincide con il 2018

di Claudio Cerasa | 27 Agosto 2015 ore 06:18 Foglio

La notizia va presa con le pinze e non è il segnale esplicito che qualcosa stia per accadere. Ma la notizia comunque c’è, è importante, e indica che, anche se la direzione di Renzi non è quella, il presidente del Consiglio, per una ragione o per un’altra, alla fine potrebbe essere costretto a fare i conti con lo scenario che più terrorizza questo Parlamento: le elezioni anticipate. Ci si chiede molto in queste ore se il ritmo, tipico da campagna elettorale, che Renzi ha cominciato a imprimere a questa fase della legislatura sia legato più all’istinto di sopravvivenza o più all’idea che il Pd debba davvero cominciare a ragionare con la testa proiettata alle urne. La grammatica del renzismo insegna che ogni volta che nella testa di Renzi improvvisamente si apre il file “elezioni” il Rottamatore utilizza sempre lo stesso numero magico per pianificare la sua campagna elettorale. Cento furono le proposte messe insieme nel 2011 alla Leopolda quando lo stato precario del governo Berlusconi, prima dell’arrivo di Monti, improvvisamente aprì una possibile finestra elettorale. Cento furono le province che Renzi nel 2012 decise di girare in camper per sfidare alle primarie Pier Luigi Bersani. Cento furono i “tavoli del futuro” aperti alla Leopolda nel 2013 sempre da Renzi poco prima della sfida alle primarie con Gianni Cuperlo. E prima del giro dei cento teatri annunciato giusto due giorni fa a Pesaro, con tempistica sospetta, la piattaforma con cui Renzi si presentò alle Europee nel 2014 in fondo aveva sempre quel numero fatale: il programma dei cento giorni (poi diventati mille).

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Problema: ma le elezioni a cui Renzi si prepara oggi sono quelle amministrative del 2016 o sono quelle nazionali? Il presidente del Consiglio dice di essere convinto che il governo debba durare fino al 2018 e il fatto che l’orizzonte immaginato da Renzi sia questo – in un Parlamento dove gran parte dei parlamentari sa che al prossimo giro sarà fuori – è una delle ragioni che, minoranza del Pd o no, porterà con ogni probabilità la maggioranza renziana ad avere sempre i numeri sufficienti per andare avanti. Ma la verità sul futuro del governo è più complicata e complessa da spiegare, e le opzioni presenti in questo momento sul tavolo del presidente del Consiglio sono due. E sono entrambe concrete. La prima opzione, che resta la strada preferita da Renzi, è quella che alcuni renziani chiamano “r-r-v”: riforma, referendum, voto. La strada è questa: approvazione rapida della riforma costituzionale, referendum per approvare la riforma stessa e, tra la fine del prossimo anno e l’inizio del 2017, voto anticipato per non dare al centrodestra la possibilità di riorganizzarsi. Tutto naturalmente dipende da quello che succederà a fine settembre con il voto al Senato sulla riforma costituzionale. Se il provvedimento passerà entro fine mese in seconda lettura, ci sarà una terza lettura che andrà fatta prima alla Camera e poi al Senato. L’ultimo voto al Senato non può avvenire prima di tre mesi dal precedente e se davvero la riforma verrà approvata in seconda lettura a fine settembre – nella migliore delle ipotesi, dunque – il testo potrebbe essere votato nel suo complesso a gennaio 2016. Dopo di che c’è il referendum, che tra una cosa e l’altra (per la raccolta firme c’è tempo fino a tre mesi dalla data in cui viene depositata la legge in Gazzetta ufficiale) difficilmente potrà essere organizzato prima di sei mesi.

Vogliamo essere ottimisti? Diciamo che se tutto fila liscio, ma proprio tutto, il referendum potrebbe essere convocato prima di settembre. E poi? Con l’approvazione della riforma costituzionale e la riforma del Senato, considerando che l’Italicum, secondo quanto previsto dalla legge, è applicabile solo dal primo luglio 2016, Renzi per la prima volta avrebbe a disposizione una legge elettorale non più strabica come oggi (se il governo dovesse cadere oggi, si voterebbe con l’Italicum alla Camera e il Consultellum al Senato) ma perfettamente funzionale. E a quel punto dipenderebbe solo dal presidente del Consiglio (formalmente anche dal presidente della Repubblica, ovvio) decidere quando premere il pulsante finish, considerando che, una volta entrato in vigore l’Italicum, non sarebbe necessario neppure dover ridisegnare i collegi, che sono stati già ridefiniti negli scorsi mesi dal Viminale. Poi, tra il momento in cui si sciolgono le Camere il momento in cui si può andare a votare formalmente ci sono 45 giorni, ma di solito ne occorrono sempre almeno 60. Dunque, se tutto va bene ma proprio tutto bene, si potrebbe votare in teoria alla fine del 2016.

La strada che immagina Renzi è dunque questa ma per arrivare in fondo c’è un ostacolo, ed è appunto la riforma costituzionale. Il problema è sempre lì: se è vero che la minoranza del Pd non intende approvare una riforma senza la (re)introduzione del Senato elettivo, Renzi, in assenza del sostegno di Forza Italia, non ha i numeri per far passare la sua riforma. Si dirà: ma Forza Italia darà davvero un aiuto a Renzi per farla passare? Se il presidente del Consiglio, come si dice, “aprirà” sulla modifica alla legge elettorale introducendo non più un premio alla lista ma un premio alla coalizione, Forza Italia metterà a disposizione del governo i suoi preziosi voti al Senato. Se l’apertura da parte di Renzi non ci sarà, invece, la partita si complica. Ma solo fino a un certo punto. E’ vero che al momento, senza la minoranza del Pd, Renzi non ha i numeri sufficienti per approvare la riforma. Ma è anche vero che, al contrario di quello che molti credono, alla maggioranza di governo non servono necessariamente 158 voti: il diavolo, e il Nazareno, si nascondono nei dettagli. Vediamo.

Nelle riforme costituzionali, il quorum minimo è necessario solo per i voti in terza lettura. Fino alla seconda lettura, invece, ovvero il caso di oggi, le riforme costituzionali possono essere votate anche solo con un voto in più. Ciò significa che in caso di difficoltà di Renzi, anche senza un accordo sulla revisione dell’Italicum, Forza Italia avrebbe un modo semplice per far passare la riforma costituzionale senza compromettersi e senza far cadere il governo: far uscire qualcuno dall’Aula al momento del voto facendo così magicamente scendere il quorum sotto l’asticella dei 158. Al momento è questa la strada che Renzi immagina, quando dice che “alla fine i numeri sulla riforma ci saranno”. Anche perché, ed è questa la preoccupazione di Forza Italia, in caso di sconfitta sulla riforma costituzionale il presidente del Consiglio non avrebbe altra scelta che premere in anticipo, rispetto al suo primo piano, il pulsante finish. Si dirà: ma quanto è credibile Renzi quando “minaccia” il Parlamento di essere pronto ad andare a votare in caso di sfiducia sulle riforme costituzionali, ovvero proprio su quelle riforme su cui è maturato il percorso di Renzi dalla segreteria del Pd a Palazzo Chigi? La minaccia, da molti punti di vista, sembra credibile e non solo per la campagna elettorale annunciata di fatto da Renzi con la strategia dei cento teatri ma anche per un’altra ragione, che si lega alla chicca che abbiamo anticipato all’inizio di questo pezzo.

La notizia, che il Foglio ha appreso in queste ore, è che lo scenario del voto anticipato con una legge elettorale strabica, ovvero con l’Italicum alla Camera e con il Consultellum al Senato, non è solo fumosa fantapolitica ma è uno scenario che il presidente del Consiglio considera possibile, al punto da aver chiesto ad alcuni tecnici della segreteria del Pd, poco prima delle vacanze estive, di simulare quale potrebbe essere al Senato il risultato di un voto con l’attuale sistema. La simulazione riguarda il Senato e non la Camera perché con il ballottaggio previsto dall’Italicum è complicato persino fare sondaggi. Ma in caso di voto anticipato e di vittoria del Pd alla Camera, a Palazzo Madama il risultato, prendendo in considerazione le previsioni di voto di fine giugno, sarebbe questo: con la lista del Pd allargata a Scelta Civica vicina al 35 per cento, a Renzi spetterebbero 120 senatori; con Forza Italia al 10,5 per cento, a Berlusconi spetterebbero circa 45 senatori; con Ncd e Udc al 4 per cento, ad Alfano e compagnia spetterebbero circa 7 senatori; con la Lega al 15,5 per cento, a Salvini spetterebbero circa 50 senatori; con Sel al 6 per cento, a Vendola spetterebbero circa 5 senatori; con il 5 stelle al 25,5 per cento, a Grillo spetterebbero circa 72 senatori.

I calcoli naturalmente, partendo da sondaggi di due mesi fa, sono imperfetti, e dei sondaggi si sa quanto ci si possa fidare. Ma gli equilibri che risultano dalla simulazione sono evidenti: in caso di vittoria alla Camera, per governare e avere la maggioranza al Senato (158 senatori) Renzi dovrebbe nazarenicamente allearsi con Forza Italia e dunque con Berlusconi. Uno scenario in fondo non troppo diverso da quello che si prospetta oggi in caso di rottura con la minoranza del Pd. E il fatto che anche dopo aver visto queste simulazioni Renzi continui a non escludere l’idea di andare a votare in anticipo rispetto al suo programma ci dice molto su quello che potrebbe essere il senso del piano B del presidente del Consiglio: meglio andare a votare e avere un Pd disegnato a propria immagine e somiglianza, correndo il rischio di doversi alleare con Berlusconi, che farsi inghiottire dalla palude della minoranza del Pd rischiando di fare la fine di Enrico Letta. I piani di Renzi sono questi e si comprende bene, dunque, che anche questa volta l’utilizzo del numero cento, per l’ex sindaco di Firenze, potrebbe essere l’indizio di una campagna elettorale che, comunque andranno le cose, difficilmente vedremo svolgersi davvero nel 2018.

Categoria Italia

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