La più antica organizzazione del lavoro è ormai un soggetto politico, peraltro più simile ai Cinquestelle che al Pd. che non ricalca le orme dei grandi venuti prima di lui
\15.6.2025 Mario Lavia, lincjiesta.it lettura 4’
La più antica organizzazione del lavoro è ormai un soggetto politico, peraltro più simile ai Cinquestelle che al Pd. Con un segretario generale che non ricalca le orme dei grandi venuti prima di lui, ma che si atteggia a Don Chisciotte
Lapresse
Che cos’è oggi la Cgil? Non quella dei tanti lavoratori che si battono ancora, come sempre, nelle aziende e nei luoghi di lavoro piccoli e grandi, no, intendiamo la Cgil come confederazione, come gruppo dirigente, quello che sta a Corso d’Italia, davanti a villa Borghese: è un buco nero, un mondo nascosto. I sindacalisti dei bei tempi, dirigenti, quadri, militanti ce li ricordiamo: tutti d’un pezzo, preparati, infaticabili, soprattutto modesti. Scarpinavano nelle periferie, studiavano quintali di documenti, sfidavano i fischi nelle fabbriche, nelle università. E quando si perdeva si perdeva, e lo si ammetteva.
Non come adesso che sembrano tutti contenti di aver straperso i referendum da loro indetti. Un tempo era tutto molto segreto, ma all’interno si discuteva eccome. La lotta politica nella Cgil era dura, a volte anche più dura di quella nel Pci, se non altro perché accanto alla maggioritaria componente comunista c’era la minoranza socialista – che soprattutto con il compianto Ottaviano Del Turco, segretario generale aggiunto con Luciano Lama, dava battaglia senza remore. E c’era anche la terza componente, più di sinistra. E alla fine il dibattito veniva fuori. Ma questo era tanti anni fa.
Poi la Cgil, in sintonia con il processo di personalizzazione della politica, è diventata il sindacato di Sergio Cofferati, il primo leader sindacale mediatico, che forte del suo carisma ne fece quasi una caserma. Modello ripreso più tardi, ma moltiplicato per mille, da Maurizio Landini, il capo sindacale più televisivo della storia. E forse è anche questa mediaticità che gli ha fatto perdere il senso della realtà. Con lui è sparita la dialettica interna, o almeno non se ne sa niente, il che produce lo stesso effetto-caserma. Nel dibattito pubblico s’ignorano i nomi di altri dirigenti della Cgil, né agli atti risultano scontri congressuali memorabili.
Anche in questo è una Cgil che col passato non ha nulla a che vedere. Il sindacato di Landini vuole essere, senza poterlo essere in alcun modo, un metapartito che pretende di avere la rappresentanza del lavoro e di guidare da fuori del sistema istituzionale il sistema politico e di governo.
È la linea del populismo sindacale più in sintonia con il Movimento 5 stelle e Alleanza Verdi-Sinistra che non con il Partito democratico, che vuole stare per strada più che nei posti di lavoro e che punta a solidificare una massa estremista e ideologica per esempio, da ultimi, esaltando i milioni di Sì al referendum-flop sul Jobs act. Sul “Diario del lavoro” Nunzia Penelope ha realizzato una vivida sintesi della riunione di valutazione dei referendum dove Landini è stato osannato (il che la dice lunga sul livello di immedesimazione nel leader): «Abbiamo fatto una cosa straordinaria, che non può finire qui – ha detto Landini – e questa rete di comitati a ogni livello che abbiamo costruito, allargandoci a un mondo più vasto, che va dall’associazionismo alle parrocchie, imparando soprattutto anche ad ascoltare, sia un patrimonio che abbiamo messo assieme, e che deve restare».
Insomma, è una Cgil come grande piazza sociale nella quale trovare di tutto e di più, a sostegno di una nuova idea della sinistra conflittuale e meno incline alla mediazione e al compromesso. Verosimilmente, è un’illusione neo-gruppettara. Nessuno obietta niente. Da anni, quando Landini propone una cosa, tutti accettano, sempre, si tratti della coalizione sociale (flop clamoroso di qualche anno fa), della rivolta sociale (idem), o del referendum snobbato dalla maggioranza dei lavoratori (un super flop).
La sconfitta di domenica e lunedì avrebbe imposto a Landini almeno il gesto di dimettersi, ma niente: la colpa è sempre degli altri, del quorum, di Giorgia Meloni, della crisi della democrazia, anche di Elly Schlein che ha sbagliato a politicizzare il voto (e qui non ha tutti i torti). Lui se ne infischia, come il giovane Holden, mostrandosi tetragono davanti alle disfatte. Rappresentare il disagio sociale più che conquistare posizioni, e intanto Stellantis e Ilva stanno lì.
Tra un anno o poco più lascerà il sindacato in ossequio alle regole della Cgil e magari sarà già la stagione delle elezioni politiche, perfetto candidato del tripartito Pd-M5s-Avs.
Certo, se putacaso la sinistra dovesse andare al governo potrebbe fare come Luigi Sbarra, l’ex leader della Cisl molto amico di Giorgia Meloni, diventato sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega per il Sud, qualunque cosa voglia dire. Però molti dicono che non gli interessi la politica politicante, il Parlamento, che preferisca rappresentare la massa socialmente marginale: ma come, non lo sa nemmeno lui. Si vedrà.
Intanto c’è questo buco nero chiamato Cgil. Se a Corso d’Italia esiste un gruppo dirigente degno di questo nome, questo dovrebbe preoccuparsi di un segretario generale che più che a Giuseppe Di Vittorio, Luciano Lama o Bruno Trentin sembra ispirarsi a Don Chisciotte dei poveri. E questo è un problema non solo della Cgil, ma del Paese.