Il quorum nemmeno sfiorato. I cinque referendum abrogativi promossi da CGIL, PD, M5S e AVS sono naufragati nel disinteresse generale:70% non vota
Biagio Marzo 11 Giugno 2025 alle 14:57 ilfiformista.it lettura 2’
L’affluenza ferma al 30%. Il quorum nemmeno sfiorato. I cinque referendum abrogativi promossi da CGIL, PD, M5S e AVS sono naufragati nel disinteresse generale: il 70% degli italiani non è andato a votare. Un insuccesso “pazzesco”, per citare Fantozzi, che non ammette scuse né attenuanti. A uscirne con le ossa rotte sono i promotori: Maurizio Landini in primis, Elly Schlein, Giuseppe Conte e l’intera “carovana” del cosiddetto campo largo. I quesiti sul lavoro si sono rivelati, in larga parte, tecnici, datati e incomprensibili ai più.
Le divisioni fin dall’inzio
Ma soprattutto lontani anni luce dalle novità del mercato del lavoro e dalle preoccupazioni concrete di milioni di italiani: ceto medio, pensionati, giovani precari. Il Sud, nella sua stragrande parte degli elettori, ha disertato il seggio. L’unico tema potenzialmente mobilitante, il diritto di cittadinanza per i figli di immigrati, era relegato alla quinta scheda, poco conosciuto e mal comunicato. L’operazione referendaria, voluta in particolare dalla CGIL e sostenuta da una parte del Partito Democratico, è fallita su tutta la linea. Le divisioni tra le sigle sindacali – con la CISL apertamente contraria e la UIL più prudente – hanno indebolito il fronte fin dall’inizio. A ciò si è aggiunto l’assenteismo record tra gli italiani all’estero: milioni di schede inviate e riconsegnate in bianco.
Quando il referendum non raggiunge il quorum
Dal 2011 un referendum abrogativo non raggiunge il quorum. Quella volta si votò in massa sull’acqua pubblica e sul nucleare. Da allora, consultazioni analoghe sono diventate strumenti di battaglia politica, raramente in grado di mobilitare consensi reali. Questa tornata ne è l’esempio più lampante: secondo i promotori, un’alta affluenza avrebbe rappresentato una vittoria politica dell’opposizione. Qualcuno parlava addirittura di “spallata” a Giorgia Meloni. Non è successo nulla di tutto questo. È successo, invece, l’incredibile. Sono arrivati ad associare la lotta referendaria sulla questione Jobs Act al dramma di Gaza. E hanno evitato di proferire verbo sui bombardamenti a tappeto di Putin sull’Ucraina.
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Una CGIL che si fa movimento politico
A questo punto, si impone una riflessione seria. Il segretario della CGIL, Maurizio Landini, porta sulle spalle la responsabilità più grave. Non solo per il fallimento referendario, ma per aver trascinato il sindacato in una logica di contrapposizione ideologica, distante dalla tradizione riformista di Di Vittorio, Lama, Trentin, Epifani. Una CGIL che si fa movimento politico e perde contatto con i luoghi reali del lavoro. Non è un dettaglio. Anche perché su Landini pesa ancora il ricordo dell’assalto alla sede della CGIL del 9 ottobre 2021, da parte di frange no vax e militanti neofascisti. Un episodio grave, che mise in luce falle evidenti nella gestione della sicurezza e nel presidio simbolico di quella sede storica. Non meno opaca la posizione di Elly Schlein.
Una sconfitta che pesa più del previsto
La segretaria del PD ha investito politicamente sul referendum, nella speranza di trasformarlo in un test nazionale contro il governo. Ma la sua linea – sospesa tra movimentismo e ideologia woke – fatica a radicarsi nel Paese. La sconfitta di oggi pesa più del previsto: se passerà sotto silenzio, il rischio è che Meloni resti vita natural durante, a Palazzo Chigi, senza più opposizione credibile.
Biagio Marzo